Parla il ministro della Cultura
Franceschini spiega perché la sinistra non ha più paura di Checco Zalone
“Il Teatro Valle? Illegale, giusto l’ultimatum. Il Teatro dell’Opera? I sindacati a volte sono autolesionisti. Le tariffe su Apple? L’azienda ha fatto un atto di ritorsione
L’Opera. I soldi. I manager. Il marketing. Il Valle. I sindacati. Il decreto. Il governo. Il Bene comune. Il cinema. La televisione. Apple. Google. Le tasse. Le ritorsioni. Dario Franceschini, prima di arrivare alla ciccia, prima di arrivare alla sua polemica con la Apple, alla rivolta delle sovrintendenze, alla sua discussione con Renzi, alla ribellione dei sindacalisti, agli scempi del Teatro Valle, si ferma un attimo, fissa il cronista negli occhi, ascolta la sua domanda, si alliscia la barba, cerca di trovare le parole giuste, giocherella con i suoi iPhone, lancia uno sguardo al suo portavoce e alla fine decide di stare al gioco. E d’un fiato la mette così. “E’ vero, sì. Oggi la sinistra non ha più paura di Checco Zalone. E oggi con Renzi è possibile fare alcune cose che un tempo era impossibile solo pensare”. Dario Franceschini, ex segretario del Partito democratico, ex capogruppo alla Camera del Pd, ex ministro dei Rapporti con il Parlamento con Enrico Letta, oggi ministro dei Beni culturali accetta di chiacchierare con il Foglio per affrontare alcuni punti delicati della politica del governo sul fronte culturale. Franceschini sostiene esplicitamente che il pacchetto Cultura, ovvero il mix tra il decreto approvato due giorni fa al Senato e la riforma che dovrebbe arrivare presto in Consiglio dei ministri, è la “riforma più renziana fatta finora dal governo” e giustifica la sua non modesta affermazione mettendo in fila alcuni tabù rottamati. Vedremo fino a che punto.
“Finora – dice il ministro – la sinistra è stata prigioniera di alcuni schemi ideologici. Si è sempre detto che sarebbe stata un’eresia far convivere il pubblico con il privato. Si è sempre detto che sarebbe stata un’eresia far convivere la parola ‘tutela’ con la parola ‘marketing’. Si è sempre detto che sarebbe stata un’eresia pensare di mettere le mani nel settore delle sovrintendenze. Si è sempre detto che sarebbe stata un’eresia rendere più manageriale l’organizzazione dei musei. Si è sempre detto che sarebbe stata un’eresia sfidare le molte corporazioni che tengono da decenni immobilizzata la macchina della cultura. Oggi il metodo Renzi ci ha permesso di prendere di petto alcuni di questi problemi e posso dire che qualcosa si è mosso. Le sovrintendenze avranno meno potere rispetto a qualche tempo fa. I direttori dei musei saranno scelti con un bando pubblico. I privati potranno investire con più facilità nel pubblico. E il pubblico dovrà cominciare a ragionare con una mentalità più aperta”.
Franceschini snocciola dati, commi, decreti ministeriali, riforme future, piani per il semestre. Esulta parlando di “crediti di imposta” (il decreto approvato due giorni fa prevede un sistema di incentivi fiscali per un privato che decide di fare donazioni per il restauro di un bene culturale, con un credito d’imposta del 65 per cento). Dice con soddisfazione che quando il decreto approvato in via definitiva al Senato verrà convertito in Parlamento saranno azzerati i vertici dei musei controllati dal ministero e sarà possibile metterli in mano anche a professionisti non necessariamente cresciuti all’interno della burocrazia. E dice di non capire le critiche di vecchi campioni della Cultura come Antonio Paolucci, oggi direttore dei musei Vaticani, da alcuni giorni impegnato in un duro corpo a corpo con il governo (“A me come ad altri – ha detto ieri ad Avvenire – ha colpito questo colpo di mano senza che i vari soprintendenti e gli storici dell’arte, cioè coloro che hanno il polso della situazione, siano stati in qualche modo partecipati, come sarebbe logico pensare. Il risultato è che con la scusa della spending review sono state proposte cose che potrebbero tradursi in vera macelleria culturale”). Franceschini esulta, dunque, ma il cronista lo provoca facendogli notare che il decreto sarà pure andato, d’accordo, ma in Consiglio dei ministri la riforma non è arrivata e chissà quando arriverà. Doveva essere presentata la scorsa settimana, era tutto pronto, la riforma era scritta, Palazzo Chigi l’aveva ricevuta, ma improvvisamente Renzi ha deciso di rimandarla, di rivederla e di riformarla. Il ministro ammette che non è chiaro quando tornerà in Cdm e allora il cronista chiede se al centro della disputa ci sia un approccio diverso tra Franceschini e Renzi rispetto al tema delle sovrintendenze. Il presidente del Consiglio ha sempre considerato “il sistema delle sovrintendenze inchiodato a un modello centralista e burocratico di stato che poteva andar bene, forse, nella seconda metà dell’Ottocento”, (“Fuori!”, 2011), “una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia”, “che stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba” “Stil Novo”, 2012). Franceschini sorride, ricorda che la sua riforma prevede un accorpamento tra due sovrintendenze, quella dei Beni storici e quella per i Beni architettonici, ma dice che “il problema non sono le sovrintendenze in quanto tali ma alcuni sovrintendenti, ed è naturale che un sindaco, che con i sovrintendenti ci si confronta quotidianamente, abbia sul tema un approccio molto duro”.
Franceschini fa una pausa, risponde a un paio di sms, il cronista ne approfitta e dirotta la conversazione su altri temi che riguardano il rapporto di questo governo con la parola cultura. Teatro Valle. Teatro dell’Opera. Apple. Checco Zalone. Chiediamo al ministro se il Valle, con tutto quello che rappresenta, con il suo regime di illegalità giustificato da un’ideologia benecomunista, sia un esempio che può in qualche modo arricchire il bagaglio culturale della sinistra. Franceschini, di fronte alla parola “Valle”, abbandona il suo stile diplomatico e va dritto al sodo. E indirettamente molla un ceffone anche gli intellettualoni come Stefano Rodotà, a capo della Fondazione del Valle, che dal 2011 a oggi hanno scelto di difendere un’occupazione illegale travestendola da operazione culturale. Tre anni di Teatro occupato. Tre anni di tasse non pagate. Tre anni di diritti Siae non versati. Tre anni di affitti non pagati e di stagioni teatrali scippate. Il tutto accompagnato dagli applausi di tutti. Di Alessandro Baricco. Di Andrea Camilleri. Di Moni Ovadia. Di Ascanio Celestini. Di Jovanotti. Di Silvio Orlando. Di Lidia Ravera. Di Toni Servillo. Di Fabrizio Gifuni. Di Elio Germano. Di Salvatore Settis. Di Ignazio Marino. Di Massimo Bray. E ovviamente di Nanni Moretti. La storia è nota. E’ il 14 giugno del 2011 quando un gruppo di artisti prende possesso della struttura, come “gesto di riappropriazione per attivare un altro modo di fare politica e per affermare un’altra idea di diritto oltre la legalità, sviluppando nuove economie fuori dal profitto di pochi”. Tre anni dopo Franceschini la vede così. “Ci sono due fasi del Teatro Valle. La prima più comprensibile la seconda no. Quella più comprensibile è l’occupazione iniziale. Quella portata avanti per far sì che il Teatro Valle restasse un teatro. Era il maggio del 2011. Poco dopo il Teatro viene affidato al comune di Roma, arrivano tutte le garanzie del caso che il teatro resterà un teatro e a quel punto l’occupazione diventa priva di significato. Diventa inaccettabile. Così come è inaccettabile che una situazione di illegalità evidente venga giustificata con la bandiere del Bene comune. Oggi – continua il ministro – qualcosa finalmente si muove. E da questo punto di vista apprezzo e condivido le ultime decisioni del comune di Roma di affidare in gestione il Valle al teatro di Roma e di comunicare agli occupanti che i locali devono essere liberati entro il 31 luglio”.
Altro giro, altro Teatro. Con il ministro spostiamo il focus della nostra chiacchierata su un altro Teatro diventato per ragioni diverse simbolo di conservazione. La storia è questa: i vertici del teatro propongono un severo ma necessario piano di ristrutturazione, i sindacati protestano, arrivano gli scioperi, gli scioperi colpiscono anche la rassegna estiva dell’Opera, il 18 luglio, sempre a Roma, alle Terme di Caracalla, scioperano i musicisti, la “Bohème” viene interpretata solo da una coraggiosa pianista, seguono altri giorni di scioperi, minacce di liquidazione coatta, il festival estivo va a farsi benedire e solo in extremis, è notizia di due giorni fa, i sindacati, tutti tranne uno, tranne la “Fisal”, decidono di scendere a patti con la sovrintendenza. Franceschini ha seguito il travaglio dell’Opera e si è fatto quest’idea.
“Difendo i diritti sindacali compreso lo sciopero ma la storia dell’Opera dimostra che l’Italia è ancora piena di casi in cui i sindacati spesso si comportano con fare autolesionistico. E facendo male non solo alle realtà in cui lavorano ma anche agli stessi sindacati. Penso all’Opera, ovviamente, ma penso anche alle incomprensibili resistenze incontrate in questi mesi quando alcuni sindacati, salvo poi ritrattare, hanno bloccato le aperture serali del Colosseo e hanno reso impossibile in alcuni casi l’accesso dei turisti a Pompei. Mi chiedo: che senso ha ragionare ancora a compartimenti stagni? Quando si capirà che mettere gli interessi delle corporazioni prima degli interessi del paese è un danno sia per il paese sia per le corporazioni?”.
Pompei, già. Il cronista ricorda con cattiveria che su Pompei Franceschini ha qualcosa di cui farsi perdonare. Vecchia storia. Nel 2010, subito dopo un grande crollo negli scavi, Franceschini, allora capogruppo del Pd, si fece riprendere in Aula mentre chiedeva a gran voce al ministro Bondi di dimettersi. Quattro anni dopo cambia la scena. E’ il 3 marzo 2014, a Pompei cadono nuove mura e stavolta non c’è nessun Dario Franceschini pronto a chiedere le dimissioni del ministro della Cultura Dario Franceschini. Il ministro accetta la provocazione e spiega.
“Riconosco che è stato uno sbaglio. Le dimissioni di Bondi andavano chieste per il modo con cui l’ex ministro accettò i tagli imposti da Tremonti. Ma legare quella mozione di sfiducia ai crolli di Pompei fu un errore. Ok?”. Ok. E come la mettiamo con Apple? Franceschini fa una smorfia a metà tra il sorriso e l’indignazione e ricostruisce la vicenda. “E’ una storia assurda. Incredibile. Il mio ministero ha fatto una cosa molto semplice. Abbiamo aggiornato il compenso previsto per la riproduzione privata di fonogrammi e di videogrammi previsto dalla legge sul diritto d’autore, abbiamo garantito il diritto di autori e artisti alla giusta remunerazione e lo abbiamo fatto con una tariffa inferiore rispetto a quelle che si trovano in altri paesi d’Europa. Rivendico la mia scelta. Rivendico l’obbligo morale per la politica di difendere il diritto d’autore, e lo stesso ragionamento andrebbe adottato sul campo dell’editoria, e rivendico il diritto di criticare la ritorsione della Apple. Che ha scelto arbitrariamente di alzare i prezzi dei suoi prodotti aggiungendo, quasi come se fosse una provocazione, persino l’Iva. Inaccettabile. Così come è inaccettabile, restando su questo terreno, che i grandi colossi della new economy, penso a Google, penso a YouTube, penso anche a Booking, vivano di fatto in un regime in cui non esistono regole. Bisogna distinguere tra l’accesso libero alla rete, che è sacrosanto, e tra il potere ricattatorio che hanno alcuni giganti della Rete. Al centro del semestre europeo, per quanto mi riguarda, l’argomento forte sarà questo. Serve un’iniziativa comunitaria e ci muoveremo in questo senso”.
E Checco Zalone? Facciamo notare a Franceschini che per molti anni la diffidenza mostrata dalla sinistra rispetto al pubblico televisivo e l’eccessiva vicinanza al mondo del cinema hanno coinciso con una sostanziale distanza mostrata dalla sinistra rispetto alla famosa pancia del paese. Qualche tempo fa lo stesso ministro, durante il Salone del libro, ha dato segnali contraddittori sul tema. Ovvero quando, in perfetto mood da “televisione cattiva maestra”, ha accusato “le tv, da Rai a Mediaset e Sky, le pubbliche e le private, di aver fatto in questi anni tanti danni alla lettura” sostenendo che le stesse tv oggi “hanno il dovere morale di risarcire il mondo della lettura”. Ma conversando con il Foglio, in conclusione, Franceschini fa un passo in avanti e riconosce che la sinistra non può più aver paura di Checco Zalone. Con un ma.
“E’ vero. Per molto tempo la sinistra ha avuto un rapporto malato con la televisione. L’atteggiamento era quello snobistico di chi pensava di essere la parte migliore del paese e di chi vedeva nel pubblico della tv davvero un pubblico di serie B. Oggi le cose sono cambiate, personalmente non ho problemi a dire che Checco Zalone, artista simbolo della contaminazione tra televisione e cinema, mi piace, mi fa ridere, e lo vedo volentieri e che sono stati gli incassi dei suoi film ad aver reso economicamente positiva l’ultima stagione del cinema italiano”. Ma? “Ma quando mi dicono: come mai Checco Zalone non vince un David di Donatello?, faccio un ragionamento diverso. Esistono due tipi di film. Film fatti per conquistare il botteghino e film che puntano alla qualità. Ognuno ha un suo pubblico. Ma c’è una cosa che mi sembra importante ricordare. La qualità di un’opera artistica, e questo vale sia per il cinema ma anche per il sistema dei musei e per tutto il resto, non si può quantificare sempre con il numero di biglietti strappati. La cultura non è un numero e a volte per raggiungere la qualità può anche capitare di dover rinunciare alla quantità”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano