La presidente argentina Cristina Kirchner sembra intenzionata a non pagare il debito del paese, e ha pronto un pacchetto di misure economiche da presentare come panacea di tutti i mali

Cristina non vuole pagare

Angela Nocioni

In Argentina è vietato parlare di “default”, i debiti sono frutto del complotto della Grande Potenza Gringa imperialista. Il piano B e la vendita “a pezzi” alla Cina.

Il default non è ancora certo, ma il cartone animato per far digerire la disfatta alle masse c’è già. Si chiama “Marziani” e debutta oggi sulla rete televisiva di stato Encuentro, il canale Arté copiato dagli argentini dai francesi, corretto con taglio educativo peronista.

 

Sei puntate da venticinque minuti l’una, protagonisti tre piccoli extraterrestri verdi con gli occhioni, nel 3014 sbarcati sulla Terra e sbigottiti dal non trovare nessuna forma di vita, soltanto un cumulo di macerie. Si apre una breccia spaziotemporale e si fa largo un paziente economista argentino con occhiali à la Harry Potter per spiegare la causa della fine dell’umanità: il debito estero.

 

La serie tv l’ha prodotta il Museo de la Deuda externa (sì, hanno pensato anche al museo per mettere le mani avanti, ha sede nella facoltà di Scienze economiche della Universidad de Buenos Aires) ed è ispirata al libro “Il debito estero spiegato a tutti”, di Eric Calcagno, quarantenne ex ambasciatore argentino a Parigi. Dice che pagare non si dovrebbe perché l’origine del debito estero è un furto colossale e per questa ragione il debito è illegittimo. La stessa teoria alla base delle minacce di default brandite più volte dall’Ecuador del presidente Rafael Correa.

 

Ormai da una decina di giorni vige un ordine nuovo per i portavoce governativi a Buenos Aires: non dire default. L’idea della propaganda della Casa Rosada è far passare a forza il concetto che non si deve parlare di default perché “l’Argentina ha pagato le rate dei suoi debiti ed era pronta a pagare ancora, solo che un terribile giudice statunitense ha bloccato i nostri soldi in una banca di New York”. Quindi non si dica “cessazione dei pagamenti”, perché è da imperialisti. L’espressione giusta è “restrizione dei pagamenti”. E guai a sbagliarsi, si arrabbiano moltissimo.

 

Fatto sta che se entro domani Buenos Aires non trova un accordo con i fondi speculativi proprietari dell’1 per cento del  debito argentino ancora pendente dopo il default del Natale del 2001, dovrà dichiarare il fatale “non pagherò”. Il secondo in tredici anni. A giugno il giudice Thomas Griesa, di un tribunale newyorchese, ha imposto all’Argentina di pagare subito e per intero il debito contratto con gli hedge fund che non hanno accettato negli anni scorsi la ricontrattazione delle quote (scontate del 70 per cento e rateizzate) nelle loro mani. L’ex presidente Nestor Kirchner, morto quattro anni fa d’infarto, fu il fautore della proposta di ricontrattazione nel 2005, accettata dal 43 per cento dei creditori. A quei tempi il giudice Griesa, lo stesso che si occupò del capitolo newyorchese del caso Sindona, era meno severo con Buenos Aires. Ma a quelli che gli chiedevano: “A settantacinque anni perché non vai in pensione?” rispondeva: “Andrò quando avrò finito con l’Argentina”. Ha mantenuto la parola.

 

L’1 per cento del 7 per cento dei creditori rimasti fuori dall’accordo, per evitare di non recuperare nulla del denaro investito, ha nel frattempo ceduto, a prezzi stracciati, i suoi titoli agli hedge fund. I fondi, rastrellate quote di credito, si sono poi rivolti al giudice Griesa che ha dato loro ragione con una decisione avallata dalla Corte suprema. La sentenza stabilisce che entro fine mese Buenos Aires deve versare un miliardo di euro ai fondi e solo a pagamento avvenuto potrà occuparsi di onorare il debito con quanti hanno invece accettato lo sconto e la rateizzazione.

 

Ma a quel punto come impedire al restante 6 per cento di creditori, che non ha ceduto le sue quote ai fondi ma nemmeno ha accettato la proposta di sconto di Nestor Kirchner, di chiedere a sua volta il saldo per intero? Si tratterebbe di sborsare altri 12 miliardi di euro. Buenos Aires, che ha già pagato tre mesi fa altri otto miliardi, non ha tutti questi soldi in cassa. O meglio, dice di avere 24 miliardi di riserve internazionali e di non potersi permettere di pagare tutto e subito senza mandare in miseria il paese. La controproposta argentina è di pagare soltanto 500 milioni e di coprire il resto con l’emissione di nuovi bond a scadenza dall’anno prossimo. Non sembra disposta ad altro. Si difende dicendo di aver depositato in tempo in una banca di New York i 401 milioni di euro dovuti come prima rata ai creditori privati che, comprate quote del debito argentino prima del default, hanno accettato nel 2005 le condizioni di risarcimento. E grida al complotto imperialista ordito dalla Grande Potenza Gringa per strozzare il modello economico argentino. Che, già di suo, non funziona benissimo.

 

L’inflazione reale è al 50 per cento, il mercato drogato da un dollaro che non si sa più quanto vale. La moneta nazionale, il peso, fuori dai confini è trattato come le banconote del Monopoli. Nessuno lo vuole, impossibile cambiarlo. Lo shopping di frontiera, dal Paraguay, dal Cile, dall’Uruguay, prende d’assalto tutti i giorni i distributori di benzina e i supermarket oltre dogana perché col cambio in nero della valuta pregiata (e oramai è pregiato tutto, anche la moneta uruguaiana) si risparmia sulla spesa.

 

La favola della grande ripresa economica argentina s’è ormai rivelata per quello che era: una rinascita di cartapesta resa possibile dagli alti profitti dell’agroexport e da una politica sociale di redistribuzione che ha evitato, per qualche anno dopo la grande crisi del 2001, di affamare i più poveri, ma senza preoccuparsi di creare ricchezza, senza chiedersi mai di che cosa si vivrà dopodomani.

 

Quel che resta dell’industria nazionale è paralizzato dalla crisi. La Cina compra la Patagonia a pezzi, ogni viaggio di Xi Jinping è un boccone nuovo: una volta il petrolio, una volta la pampa, il presidente cinese è arrivato con 250 imprenditori al seguito il 19 luglio, accolto come un benefattore perché ha aperto una linea di credito di 8 miliardi di euro che non si sa ancora quanto costerà di interessi alla fine, ma ora fanno molto comodo. Intanto lui compra, compra. Si porta via banche (l’ultima è la Standard Bank), petrolio, grano e riserve minerarie. La Cina è già il secondo partner commerciale dell’Argentina e sta per superare il Brasile. E’ cinese la seconda impresa di idrocarburi del paese, la China National Offshore Oil Corporation (Cnocc). Cinesi sono le due centrali elettriche nuove di zecca nel sud estremo di Santa Cruz. L’ultimo investimento è la ferrovia Belgrano-Cargas. Da Pechino hanno mandato anche i vagoni: 160.

 

E’ in questo clima da catastrofe negata nonostante l’evidenza che la presidente Cristina Kirchner, in scadenza di mandato l’anno prossimo, sta preparando un pacchetto di misure da presentare come panacea di tutti i mali se il suo ministro dell’Economia – il bell’Axel Kicilloff, marxista eterodosso, gruppettaro militante, ai tempi della facoltà di Economia dell’Università di Buenos Aires nella lista rossa “Tontos pero no tanto” – non riuscirà a mettersi d’accordo con gli avvocati degli hedge fund. Già il ministero dell’Economia ha cominciato a far sapere che “l’impatto (del default, sempre sottinteso, perché non deve essere nominato, ndr) non sarà della potenza del 2001”. Già il supergovernativo Página 12, che una volta era il giornale scanzonato di Buenos Aires e ora è gonfio di pubblicità di ministeri vari e sembra la Pravda, ha cominciato a scrivere che “la situazione economica non è piacevole, ma nemmeno è l’abisso dipinto da chi ha bisogno di lui (il default, sempre innominabile) per imporre nuove condizioni al paese e ai suoi abitanti”. Ora è pronto il pacchetto emergenza che, in caso di disaccordo a New York, cercherà di attutire l’urto: prezzi bloccati per alcuni prodotti, concessione di nuovi crediti facilitati per l’acquisto di immobili (mercato in flessione del 40 per cento) e auto (caduta del 30 per cento), divieto di licenziamenti di massa e finanziamenti a piccoli imprenditori. Cosa ci sia di concreto in tutto ciò è difficile dirlo, un nuovo default avrebbe perlomeno un impatto pesante sul prezzo del dollaro e di conseguenza sulle importazioni. Página12 già auspica “la riduzione dell’import di merci sofisticate destinate al consumo della classe media”.

 

Potrebbe trattarsi, però, di un default tanto pubblicamente negato quanto segretamente auspicato dal governo. Secondo un documento riservato, tirato fuori dal giornale Clarín, principale nemico del clan Kirchner al potere, due legali, consiglieri della presidente, starebbero raccomandando da tempo di non pagare. I due avvocati, Carmine Bocuzzi e Jonathan Blackman, avrebbero suggerito a Cristina di “permettere il default al fine di poter immediatamente dopo ristrutturare tutti i buoni esteri del debito in modo tale che i meccanismi di pagamento e tutti gli aspetti a essi relazionati rimangano finalmente fuori dalla portata dei tribunali nordamericani”.

 

Si potrebbe anche arrivare a una meno drammatica via di mezzo, ossia dichiarare un default ma per una quota più piccola del debito. In ogni caso, con la situazione economica attuale (recessione, inflazione alta, fuga di capitali, scarsezza di valuta e deficit fiscale) sia rispettare la sentenza del giudice Griesa sia non rispettarla avrà un costo elevato.
Tanto che nemmeno Roberto Lavagna, l’economista che traghettò l’Argentina fuori dalla crisi del 2001 e ormai diventato il guru degli economisti anti Cristina, se la sente di gettare la croce addosso al governo. “Está difícil”, borbotta.

 

Fu lui a governare tredici anni fa l’emergenza. Peronista anomalo, di formazione liberale, fu nominato ministro dell’Economia subito dopo il tracollo di Buenos Aires, con il pil precipitato del 20 per cento, i conti correnti privati congelati dalle banche e buona parte della classe media finita a rovistare nei cassonetti della spazzatura. Si vanta di essere riuscito a risollevare, almeno temporaneamente, un paese dato ormai per spacciato. Accettò la necessità di abolire la parità fittizia tra dollaro e moneta nazionale, che aveva consentito a Buenos Aires di vivere nell’illusione di essere una piccola Florida australe per dieci anni. E si occupò di scongelare i conti correnti bancari privati (e chi aveva un conto in dollari si ritrovò con la brutta sorpresa di vederlo trasferito di forza in pesos, una rapina). L’operazione più nota di Lavagna fu la ristrutturazione del debito argentino, che in parte riguardò anche i possessori italiani di tango bond.

 

Nella conversazione con il Foglio, Lavagna fa notare ora che la decisione del giudice Griesa è stata considerata “rischiosa” dal governo degli Stati Uniti e dal Fondo monetario internazionale. Spiega l’ex ministro: “Il punto dolente è l’interpretazione che della clausola pari passu ha dato il giudice e la Corte: tacendo, ha avallato. Quell’interpretazione fa sì che l’1 per cento dei creditori, in questo caso fondi speculativi che non hanno accettato le condizioni di risarcimento date dagli argentini, abbia più diritti e più benefici del 93 per cento dei creditori che invece l’hanno accettate”. Sostiene, e per questo si infuria nonostante veda Cristina Kirchner come il fumo negli occhi, che “questa nuova interpretazione è perversamente l’opposto del principio che non mi concessero di applicare quando nel 2005 contrattammo per risarcire i risparmiatori italiani”. Cioè?

 

Racconta Lavagna: “Mentre era in corso la trattativa per risolvere la questione italiana dei tango bond, io proposi allora che, in difesa dei piccoli risparmiatori italiani rispetto ai grandi, si decidesse un trattamento preferenziale per coloro che avevano investito nei bond argentini meno di 50 mila euro, così da far avere loro un vantaggio rispetto ai ben più ricchi investitori che avevano in mano pacchetti più consistenti. La proposta fu respinta sulla base del fatto che la legislazione internazionale prevede una uguaglianza di trattamento”. E qui a Lavagna scappa il riflesso complottista: “Ora il principio dell’uguaglianza viene violato lo stesso, ma viene violato alla rovescia. Si decide che quell’1 per cento dei creditori, fondi che tra l’altro hanno pagato 25 centesimi per ciascun dollaro con chiaro intento di fare poi speculazione, ha diritti più pesanti di tutti gli altri risparmiatori. Buffo, no?”.

 

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