Matteo Renzi (foto LaPresse)

Lo slalom di Renzi tra le peggiori crisi industriali d'Italia

Nunzia Penelope

Acciaierie, capannoni, miniere. Mappa di un insolito tour estivo al quale i sindacati non sono invitati.

C’è chi passa le ferie nelle città d’arte e chi nelle capitali dell’industria in crisi, tra capannoni, acciaierie e raffinerie un po’ arrugginite. Matteo Renzi ha scelto quest’ultima opzione, primo presidente del Consiglio ad assumersi l’azzardo di visitare le dieci peggiori crisi produttive nazionali, tra agosto e settembre. Lo ha annunciato Renzi stesso, nel corso dell’assemblea dei parlamentari Pd, con elenco puntuale delle tappe: Napoli, Reggio Calabria, Gioia Tauro, L’Aquila, Piombino, la Sardegna con il Sulcis e Olbia, la Sicilia con Gela e Termini Imerese, Taranto, e perfino la ricca Reggio Emilia.

 

Un tour per individuare soluzioni, che il segretario della Cgil, Susanna Camusso, ha però definito sprezzantemente “visite pastorali’’. Del resto nessuno, nel sindacato, sembra dare peso all’iniziativa del premier. I rappresentanti dei lavoratori, scavalcati, se la cavano con una battuta: “In agosto? Ma non sa che le fabbriche sono chiuse?”. Altri insinuano: “Non ne sappiamo niente di questo viaggio. Magari Renzi ne avrà parlato con la Fiom”. Il riferimento è a Maurizio Landini, l’unico, tra i sindacalisti nazionali, ad avere aperto un canale di comunicazione con il premier. Canale, peraltro, indiretto: fatto di incontri in treno con Graziano Delrio (come Landini pendolare sui Freccia Rossa per Bologna), o di contatti con Debora Serracchiani, nati con la vertenza Electrolux, conclusasi con un successo per Renzi: il quale, si dice, avrebbe dato ascolto proprio ai suggerimenti del leader Fiom. E sempre Landini starebbe studiando, per l’autunno, una forte iniziativa nazionale per contrastare la deindustrializzazione del paese: coincidenze, forse. Per il resto, i rapporti del governo con i sindacati sono affidati ai singoli ministri, o meglio ai tecnici dei ministeri. Allo Sviluppo, per dire, gli interlocutori per le crisi sono Claudio De Vincenti, che da anni risolve tutte le grane, o Giampiero Castano, proveniente, tra l’altro, dalle file della Fiom, mill’anni fa. Ed è a via Veneto, dunque, che si possono reperire le mappe della crisi in cui si immergerà nelle prossime settimane il premier. Crisi vecchie, ormai quasi storiche. Eccole.

 

L’Alcoa di Portovesme, per esempio, è una telenovela infinita: era il febbraio 2009 quando i licenziandi dell’azienda sarda, messa in liquidazione dagli americani, installarono il primo presidio davanti a Montecitorio, tende canadesi e bidoni con il falò per riscaldarsi nelle notti più gelide dell’anno. Dopo cinque anni, siamo sempre lì: anche l’ennesimo acquirente, il gruppo svizzero Klesch, s’è dileguato. In Sardegna c’è anche la Vinyls di Porto Torres: prima in esercizio provvisorio, poi commissariata, infine fallita. Nasce qui la prima vertenza  2.0, raccontata su internet dal blog “L’Isola dei cassaintegrati”. Anche nel caso Vinyls, acquirenti fantasma: prima gli arabi della Ramco, poi gli svizzeri del fondo Gita, ma intanto impianti sempre fermi e gente per mesi senza stipendio. E in Sicilia ecco Gela, che Giorgio Bocca raccontò nel suo “Inferno’’, documentato saggio dedicato al sud. Gela, dove tutto è abusivo, Gela “destinazione disagiata’’ per eccellenza di forze dell’ordine e magistrati, Gela dove però spicca la  solida realtà produttiva dell’impianto Eni, che ora minaccia la chiusura. Per non dire di Termini Imerese: altra storia senza capo né coda, nata negli anni 70 quando la Fiat decise di dare una mano al governo Dc, aprendo uno stabilimento nel nulla.

 

Ma oggi, i costi di un impianto che impone il trasporto via mare di materie prime e manufatti hanno qualcosa di surreale, se rapportati al concetto di produttività. Sarà per questo che anche i pretendenti all’acquisto della fabbrica siciliana si sono rivelati, uno dopo l’altro, dei bluff. E dunque, Termini è ancora lì, simbolo di un’Italia che le parole “politica –industriale’’ le ha sempre pronunciate con fatica. Osservano i sindacati che Renzi dovrebbe richiamare alle sue responsabilità anche la Confindustria, perché solleciti i suoi iscritti a investire: “Chi lo ha fatto, ha innovato e oggi lavora ed esporta; chi non lo ha fatto chiude, o chiede aiuto alle casse pubbliche, col ricatto dei licenziamenti”. Ed è questa la perfetta metafora della crisi che si può leggere nell’Ilva di Taranto: acciaeria che negli anni si è trasformata in un gigante in agonia. In parte vittima, come molte altre realtà industriali, di un capitalismo senza capitali, per dirla con le parole dell’economista (meridionale) Napoleone Colajanni. Capitali che nel caso specifico dei Riva, a sentire i giudici, sarebbero parcheggiati in paradisi fiscali. E quei 2 miliardi già sequestrati dalla procura di Milano sono in predicato di essere scongelati (per decreto) al fine di reimmetterli nell’azienda.

 

Tuttavia, la crisi non è solo nel sud: in Emilia Romagna, per dire, Renzi troverà le imprese che hanno coraggiosamente ricostruito i capannoni dopo il terremoto, ma anche la grana del petrolchimico di Ferrara (quello del centro di ricerche Giulio Natta, grazie al quale abbiamo vinto un Nobel), o il distretto della ceramica, fiore all’occhiello del made in Italy, oggi con 4.500 in Cig. E a Piombino, i reduci della Lucchini, “spenta’’ nell’aprile scorso. Il succo, dicono gli esperti, è che sud e nord si salvano insieme o affondano insieme. E se i dati Svimez (associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno) avvertono che nelle regioni meridionali il pil è tornato indietro di dieci anni, altri studi, raccolti nel volume “L’economia reale nel mezzogiorno”, a cura di Marco Fortis e Alberto Quadrio Curzio (il Mulino, collana della Fondazione Edison) affermano che “lo sviluppo del Mezzogiorno secondo una logica industriale, porterebbe l’Italia a diventare come la Francia e la Germania”. L’economista Fortis rileva che il sud ha tutti i numeri per contare nell’economia europea: “Se il mezzogiorno riuscisse a liberarsi, in un contesto di solidarietà creativa nazionale, dei limiti istituzionali e sociali che lo vincolano, l’Italia diverrebbe una potenza economica continentale”. Ma intanto, queste sono le storie, questo è il viaggio italiano che attende Renzi.