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Più ci sono sanzioni occidentali, più i “Krimnashisti” si stringono a Putin

Marta Allevato

Al bar, nella redazione di un popolare quotidiano russo. La City, con i nuovi grattacieli in cui Mosca si specchia e si sente occidentale, è a poche fermate di metro. Uno dei caporedattori entra e trova i colleghi assiepati intorno al televisore, “come per una partita di calcio”.

    Mosca. Al bar, nella redazione di un popolare quotidiano russo. La City, con i nuovi grattacieli in cui Mosca si specchia e si sente occidentale, è a poche fermate di metro. Uno dei caporedattori entra e trova i colleghi assiepati intorno al televisore, “come per una partita di calcio”. Vladimir Putin parla in diretta davanti alle Camere riunite, dopo aver firmato la “riunificazione” della Crimea alla Russia. Alle parole “Krim nash!” (la Crimea è nostra), il pubblico di cronisti esplode in un orgoglioso applauso. “Da quel momento ho capito che vivevo in un paese diverso da quello che conoscevo”, racconta il caporedattore, chiedendo l’anonimato per tutelare la sua posizione. Tra quei colleghi, “c’erano anche persone critiche del Cremlino”, “si sono trasformati in Krimnashisti”, il neologismo con cui nei sempre più ristretti circoli dell’opposizione vengono etichettati i sostenitori della politica putiniana.

     

    Le sue impressioni sono confermate dai sociologi, che parlano di un cambiamento radicale dello “stato della società”, negli ultimi sei mesi. “Si tratta di una categoria sociologica seria – racconta Alexei Levinson, esperto del Centro Levada, principale istituto demoscopico indipendente – e descrive quali gruppi sociali e discorsi dominano in un determinato momento”. Tra il 2011 e il 2012, il movimento di protesta contro i brogli elettorali e il ritorno di Putin al Cremlino era appoggiato dal 40 per cento della popolazione. Dal Maidan a Kiev alla “riunificazione” della Crimea, passando per le Olimpiadi di Sochi, la popolarità del presidente è arrivata al livello record dell’86 per cento. Per lui è disposto a votare il 60 per cento della popolazione. Allo stesso tempo, cala la percentuale di russi che ritiene “improbabile” l’esplodere di proteste a sfondo politico nel paese: a fine giugno era la più bassa di tutta l’èra putiniana. Levinson spiega che “quando il sostegno al capo di stato raggiunge tali picchi, questo va indirizzato verso un’impresa concreta: in mancanza di un progetto positivo, si è rilanciata con forza la costruzione di un nemico esterno”, di fronte al quale la Russia può vincere soltanto se unita.

     

    “I russi oggi si sentono sul fronte di guerra”, avverte il giornalista. Dopo l’annessione, a Mosca la gente ha appeso alle finestre il tricolore nazionale. Il nastrino arancione e nero di san Giorgio, simbolo della vittoria sul nazismo, è indossato ovunque, mentre la tv racconta le nefandezze della “giunta fascista di Kiev”. Il discorso pubblico è intriso di valori e ideali, come anche il racconto mediatico della crisi. “Per la prima volta in molti anni, c’è un dramma epico, che coinvolge ambizioni imperialiste, interessi economici, la storia, la geopolitica e la guerra”, scrive il cronista d’opposizione Oleg Kashin su New Republic. Gli expat si trovano a dover spiegare la loro posizione sulla Crimea, sollecitati dai conoscenti russi; ogni opinione che non contempli l’allineamento al leitmotiv “Krim nash” suscita sparate contro “l’Europa, sottomessa agli Stati Uniti”, complici di voler creare con sanzioni durissime  l’isolamento del paese. “Proprio in nome della grandezza del nostro stato – continua il reporter – si è disposti a sacrificare tutto”.

     

    Per esempio, i rapporti tra parenti e amici. Tatiana è una ricercatrice di storia, sua sorella le ha tolto il saluto, giudicandola una “traditrice” per le sue posizioni. Aleks ha 40 anni e fa il fotografo. Ha partecipato alla “rivoluzione della neve” nel 2012, ma ora ha smesso di parlare di politica con i suoi amici, “perché tanto si finisce a litigare”. “Ormai, tutto quello che succede di negativo è attribuito in automatico agli Stati Uniti”, racconta Mikhail Zygar, direttore della tv indipendente Dozhd.

     

    Le sanzioni occidentali e l’incertezza sul futuro pesano sui pochi che, già in disaccordo con il corso politico, sognano di emigrare. Solo tra i giovani, la percentuale è del 22 per cento. Secondo l’Accademia delle scienze, se l’esodo continua, la middle class – che due anni fa si era sollevata, chiedendo più democrazia e diritti – sarà costituita soltanto da impiegati pubblici, fedeli allo stato. Ad ammettere un cambiamento “radicale” del panorama socio-politico in Russia è anche Alexei Kudrin, l’ex ministro del Tesoro considerato il liberale più vicino a Putin. “Siamo diventati di nuovo gli avversari dell’occidente”, denuncia a Itar-Tass, dicendosi “colpito dal livello della retorica antioccidentale” e dalla presenza di forze che vogliono l’isolamento del paese. Stando alle sue stime, il divorzio dall’occidente costerà ai cittadini il 15-20 per cento in meno di redditi.

     

    Ma anche questo non sembra preoccupare i russi. Secondo un recente sondaggio del Levada, il 61 per cento della popolazione non è spaventata dall’inasprimento delle sanzioni. I sociologi rilevano che l’ansia dei cittadini per le misure punitive di America ed Europa continua a diminuire progressivamente: i primi di marzo, più della metà degli intervistati (53 per cento) si diceva preoccupata; ad aprile il dato era del 42. La caccia al “nemico della patria” ha fatto ripiegare nei salotti l’intellighenzia, che ha perso influenza sull’opinione pubblica, e internet “non rappresenta più un’oasi di libertà”, scrive su Vedomosti Fëdor Krasheninnikov, presidente dell’Istituto per lo sviluppo e la modernizzazione delle pubbliche relazioni di Ekaterinburg. “Sono cambiati i vertici di molti siti d’informazione, i blogger più critici sono stati emarginati; sono stati formati commentatori filogovernativi, mentre ai politici è stata ordinata una maggiore presenza sui social network”, spiega lo stesso analista il quale decreta anche la fine delle cosiddette “due Russie”: quella online, fatta di persone con senso critico, e quella offline, la massa che si informa solo con la tv. “Ormai la rete per lo più traduce il discorso televisivo”. All’emittente Dozhd, il musicista Andrei Makarevich – già oggetto di una campagna denigratoria, seguita alla sua condanna dell’intervento in Crimea – ha dichiarato con preoccupazione: “Sei mesi fa vivevamo in un altro paese”.