Valdimir Putin (foto Ap)

Che si fa ora che abbiamo messo la Russia (illiberale) con le spalle al muro?

Anna Zafesova

Putin “abita in un altro mondo”, disse Angela Merkel, cancelliera tedesca, durante i giorni dell’annessione della Crimea alla Russia. Quello della democrazia illiberale, in cui alle mire espansionistiche del leader segue un grande consenso, e uno stringersi forte quando le minacce di isolamento si fanno realtà.

Milano. Vladimir Putin “abita in un altro mondo”, disse Angela Merkel, cancelliera tedesca, durante i giorni dell’annessione della Crimea alla Russia. L’altro mondo della democrazia illiberale, in cui alle mire espansionistiche del leader segue un grande consenso, e uno stringersi forte quando le minacce di isolamento si fanno realtà. In questo mondo, nel giro di una settimana Putin ha guadagnato le copertine di tutti i maggiori media internazionali, ma le cover che inneggiavano al nuovo zar, all’uomo più potente del mondo e al politico dell’anno sono state archiviate. L’Economist ha pubblicato la sua faccia in una ragnatela con il titolo “Una rete di bugie”.

 

Il Time ha parlato di “Guerra fredda II” con un Putin che getta un’ombra a forma di aereo. Newsweek lo ha bollato come il “Paria”. Perfino lo Spiegel, voce dell’élite tedesca di solito più morbida verso Mosca, ha sparato un mosaico di foto delle vittime del Boeing abbattuto sull’Ucraina dell’est con un titolo gridato: “Fermare Putin Ora!”. Il tempo dei “ponti” e dei “reset” sembra finito. Le nuove sanzioni in cottura nella cucina di Bruxelles sono micidiali nella loro apparente mitezza, e potrebbero, secondo l’ex ministro del Tesoro Alexey Kudrin, “distruggere l’economia russa in sei settimane”. Con il Boeing caduto nei campi della guerra ucraina i giochi sono finiti, sia per l’Europa che deve, dice il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, “mettere la pace e la stabilità prima degli interessi del business”, sia per la Russia che non può più scommettere sul pragmatismo e l’indecisione europee.

 

A Mosca si sentivano invulnerabili a giocare alla guerra a Donetsk, mandargli missili e carri: tanto “quei rammolliti degli europei non ci faranno nulla” era una frase ricorrente nelle conversazioni. I potenti post sovietici sono entrati nei meccanismi politici internazionali moderni da appena una ventina d’anni e la loro reazione è stata adolescenziale: negare, mentire, puntare il dito sugli ucraini, insultare, inventare improbabili vendette (notevole la lista dei “sanzionati” americani, tra cui i soldati torturatori di Abu Ghraib, che difficilmente in questo momento stanno pianificando un giro turistico per i musei di Pietroburgo).

 

Il risultato è che nessuno più bussa alla porta di Putin, mentre i leader occidentali fanno a gara a chi propone la punizione più dolorosa per i russi. Ma a quale risultato puntano le nuove sanzioni? Ridurre Putin, leader di una democrazia illiberale che tende verso la dittatura, a più miti consigli? Se l’occidente decide di riconoscerlo come nemico deve anche decidere cosa vuole farne. Costringerlo a redimersi? Contenerlo? Lavorare per un regime change bruciandogli la terra sotto i piedi? Come si fa, in questi casi?

 

Qualunque sia la scelta, per portarla a compimento bisogna comprendere la logica nella quale funziona “l’altro mondo” in cui abita Putin. Tutti gli autoritarismi hanno dinamiche comuni, piuttosto facili da cogliere (dopo un’esperienza ormai ricca in diverse parti del mondo), ma difficili da capire per chi viene da una democrazia consolidata. I dittatori non vengono calati da Marte, nascono da un consenso esteso (che esso si fondi su una sindrome post traumatica, come era successo in Germania, o su una cultura politica pregressa, come in Russia, o sullo choc della modernizzazione in paesi arretrati). Fin qui, si potrebbe argomentare che si tratta di una libera (più o meno) scelta di una nazione e che bisogna lasciarla vivere come le pare. Ma, se all’inizio possono apparire risolutive, alla lunga gli autoritarismi si mostrano inefficienti. In una democrazia, tra mille difficoltà,  un aggiustamento di rotta si può spiegare, negoziare, al limite si cambia governo. Un regime non può fare mea culpa, né venire meno al suo ruolo di padre che elargisce benefici, e quindi deve cercare i responsabili altrove, o nella caccia alle streghe interna o nell’accerchiamento ostile esterno. E deve anche cercare risorse per mantenersi in vita, economicamente e politicamente. Un autoritarismo non si chiude quasi mai in se stesso in attesa di un’evoluzione: tende a essere aggressivo ed espansivo.

 

La Russia di Putin è una dimostrazione da manuale di questa sequenza. L’economia russa, ben prima delle sanzioni, viaggiava inesorabilmente verso la recessione e gli stessi ministri di Putin ammettevano pubblicamente che il motore della spesa pubblica e degli aumenti salariali alimentato dal super-barile si stava spegnendo, grazie anche al ruolo di Babbo Natale del presidente, che alla terza rielezione nel 2012 ha firmato una raffica di decreti che favorivano il suo elettorato principale (dipendenti pubblici, militari, pensionati, insegnanti, operai dell’industria bellica, poliziotti ecc.) insostenibili per il bilancio, e si è lanciato in una serie di spese folli, dalle Olimpiadi di Sochi alla Crimea, che si è già mangiata senza troppo clamore i versamenti pensionistici privati del 2013. L’annessione della penisola ha rianimato il consenso di Putin (che cominciava a mostrare qualche segno di stanchezza) al livello record dell’86 per cento, perché ai russi piace esattamente quello che non piace agli occidentali, e il grido “la Crimea è nostra!” è in grado per qualche tempo di tappare le orecchie dalle voci di un imminente aumento di Irpef e Iva, tagli alla sanità e buco nel fondo pensione.

 

Provare a convincere un uomo in questa situazione a moderare la sua politica è come negoziare con un treno lanciato giù da una montagna.

 

Putin non può togliersi la corona di zar dicendo ai russi che d’ora in poi da padre padrone nazionalista diventerà un riformatore liberale, giocandosi la sua immagine di uomo forte.

 

Non può abbandonare la sua alleanza con la popolazione in cerca di paternalismo, dicendo che per la prima volta in quindici anni il tenore di vita della maggioranza invece di aumentare diminuirà, tanto meno sacrificarla a una svolta modernizzatrice che ucciderebbe quel che resta della poco competitiva industria e agricoltura ex sovietica. Non può rompere il suo patto faustiano con la burocrazia-oligarchia ormai diventate una sola cosa, che attendono da lui nuovi appalti e tangenti (a differenza degli oligarchi “eltsiniani” come Abramovich che, con tutta l’ambiguità della loro accumulazione primigenia, oggi sono proprietari di imperi globalizzati e più o meno efficienti, di mercato si potrebbe dire, quando il “cerchio magico” putiniano vive essenzialmente di bilancio pubblico). Non può cercare un’alleanza con tutti quelli – deboli e frammentati per giunta – ai quali per anni ha tolto spazio e ossigeno: liberali, borghesia nascente, intellighenzia, imprenditori. Anche perché il Boeing è stato uno spartiacque non solo nel rapporto con il mondo esterno, ma anche con molte delle élite interne, che si rendono conto di non avere più margini di tolleranza nel convivere con il regime, ma non hanno nemmeno la forza di ribaltarlo. Non può rinunciare alla Crimea, il vero casus belli con l’occidente, il primo cambiamento forzato dei confini europei dopo la Seconda guerra mondiale che però gli ha portato una nazione consolidata come mai prima in un entusiasmo nazionalista. Né può farsi da parte per lasciare fare il lavoro sporco a un altro, perché il potere in Russia è in regime manuale, e mollarlo – anche con un “delfino” poco ambizioso come è stato Dmitri Medvedev – può rivelarsi fatale.

 

Chi vuole fare la guerra, calda o fredda, a Putin deve tenere presente che lui è il vertice di una piramide, ma è anche prigioniero di una catena di eventi irreversibili. Le analisi psicologiche di Putin in questo contesto sono istruttive quanto inutili. E’ vero che il sistema risponde a un solo uomo ma è vero anche che è la logica del sistema a privare quest’uomo della libertà di manovra. Come dice una vecchia, e abusata, frase del marchese de Custine, il sovietologo ante litteram dell’Ottocento, “soltanto in Russia si può capire quanto è impotente colui che ha tutto il potere”. Nella visione di Stanislav Belovsky, politologo originale autore di un libro controverso quanto curioso sul presidente russo, il mondo ha a che fare con un “ciclista costretto a pedalare sempre più velocemente”. Convinto per di più di essere l’unico argine al disastro, a una Russia smembrata e depredata dall’occidente, dilaniata da secessionismi ed estremismi. Secondo Belkovsky, l’imprinting negativo di Putin è la morte di Muammar Gheddafi nella campagna di Libia e – da conservatore in senso tecnico quale è – non cercherà mai una soluzione ai suoi problemi in una liberalizzazione, “convinto sinceramente che le rivoluzioni sono sempre fomentate dall’esterno”. E potrebbe essere vittima di una profezia che si autoinvera: il sistema monarchico russo non prevede altri meccanismi di potere che possano chiudere il vuoto di uno zar caduto, tra il trono e il caos non ci sono fermate intermedie.

 

Chi ha deciso che la Russia d’ora in poi è “una antagonista” deve tenere presente tutto questo, con i rischi, la fatica e le spese che questo scenario comporta. “Contenere” la Russia respingendola nel suo angolo e facendole assaporare la sua debolezza, in attesa di una estinzione “fisica” del regime, è una strada difficilmente praticabile: lo zar salutista ha soltanto sessantuno anni, e le risorse della Russia sono sufficienti per campare (male) per anni prima del collasso definitivo. Affrontarla in campo aperto è impossibile: resta una potenza nucleare. Lavorare per un regime change significa impiegare anni e miliardi, con un risultato tutt’altro che garantito: secondo Belkovsky, la caduta di Putin significherà l’avvento di nazionalisti ancora più estremi, e la fuga in Russia, uno dopo l’altro, dei protagonisti del separatismo ucraino crea un centro di potere nuovo, e forte, che insidierà il presidente ricordandogli ogni giorno lo smacco subito in Ucraina (un po’ sul modello dei reduci di Algeria per De Gaulle). Cercare un appeasement significa incappare in nuove ucraine. Le probabilità di un lieto fine sono state abbattute insieme al volo Mh17.