Che palle 'sto Teatro Valle
L’avanspettacolo dell’occupazione. La presa di un bene pubblico è finita così, a tarallucci e vino. Il comune “riconosce” gli occupanti come interlocutori di un futuro teatro “partecipato”. Si è creato o no un precedente?
Il dramma non è un dramma (per fortuna), ma la commedia non è del tutto una commedia. Piuttosto pare un mistero buffo e un poco amaro, con il senno del poi, il pasticcio mezzo-risolto del Teatro Valle: teatro occupato tre anni fa, quasi usucapito dal collettivo “comunardo” (così si erano autodenominati gli occupanti, in nome del “bene comune”) e infine quasi liberato (accadrà tra otto giorni), con sollievo del comune e dei meno oltranzisti tra i comunardi stessi, stufi pure loro di piantonare la baracca giorno e notte. Dev’essere il destino del Valle, teatro settecentesco, quello di far sempre da sfondo a una guerra di mondi: sputacchi metaforici arrivarono colà a Luigi Pirandello, nel 1921, al debutto di “Sei personaggi in cerca d’autore”, pièce salutata dal pubblico inferocito al grido di “manicomio, manicomio!”. E applausi non proprio pieni arrivarono sulle prime a Carmelo Bene, molti anni dopo, quando alcuni spettatori lo trovarono troppo sperimentale per quel palcoscenico che aveva ospitato drammi, commedie, operette e intermezzi (poi arrivò il trionfo: al Valle, negli anni Settanta, per Carmelo Bene si facevano file e soprattutto follie, come portarsi dietro i figli piccoli, e pazienza se quelli, appisolati sulle poltrone non senza timore di quell’orco sul palco, si svegliavano di soprassalto all’urlo spaventoso dell’attore con occhi più neri della notte). Ma c’è sperimentazione e sperimentazione, avanguardia e avanguardia (non tutti i workshop multidisciplinari del Valle occupato lo sono). Fatto sta che oggi, al Valle, la guerra di mondi s’è risolta con un “tutti contenti, tutti scontenti” (tarallucci, vino e realpolitik).
“Irresistibile resistenza”, l’hanno chiamata al Valle ancora per poco occupato la notte bianca lunga dieci giorni – fino al 10 agosto, notte di stelle cadenti e “desideri”, in cui, dicono gli occupanti, “si può forzare il tempo” per “inventarlo” oltre il 31 luglio, data inizialmente (e dopo tre anni) posta come limite dal comune di Roma per la riconsegna chiavi-in-mano dello stabile. Vogliamo un 32, un 33, un 34 luglio, ha detto due giorni fa la voce collettiva dell’assemblea dei comunardi, poi immortalati in conferenza stampa alla Camera dei deputati, ospiti di Sel, nel loro repentino passaggio alla ragion di stato (anche conveniente): alla vista della data del 31 avevano detto “non ce ne andiamo” neanche per idea, anche se il comune, attraverso il mediatore e presidente del Teatro di Roma Marino Sinibaldi, aveva concesso “riconoscimento” all’esperienza occupata e aveva promesso, pur di riportare il tutto nella “legalità” ossessivamente nominata dal sindaco Ignazio Marino (con Corte dei Conti che indaga retrospettivamente sui tre anni di occupazione), di mettere il Valle sotto la “gestione pubblica” del Teatro di Roma, garantendo una “cessione di sovranità” in direzione del “teatro partecipato” e “bene comune” nell’accezione dei giuristi del giro Rodotà-tà-tà (Ugo Mattei in testa). Più di così si muore (manca solo la presidenza onoraria del teatro come premio agli occupanti).
Ma gli occupanti, lì per lì, volevano di più. (Nottetempo però l’ala moderata prendeva il sopravvento presso il “partito del Valle”, sconfiggendo in assemblea la linea di chi voleva resistere a tutto perdendo tutto, pure la soluzione comprensiva offerta dal nuovo assessore alla Cultura Giovanna Marinelli, donna che “da amministratrice” era pronta anche allo sgombero, come temevano a un certo punto gli occupanti). Seguiva catarsi, con attestazione di reciproca fiducia tra anti istituzionali artisti e vituperate istituzioni (fino al giorno prima e forse tuttora considerate colpevoli di immaginato strangolamento dell’avanguardia).
Tutti contenti e tutti scontenti, dunque, ma costernato e frastornato il cosiddetto “popolo del Valle”: aspiranti sceneggiatori e sceneggiatori, aspiranti attori e attori, giornalisti, scrittori, signore indignate dei comitati anti traffico o anti schiamazzi, studenti universitari, ex militanti di Sel o ex Rifondazione comunista in cerca di collocazione, artisti multimediali, habitué del meglio dei centri sociali (come centro sociale, infatti, il Valle occupato funzionava benissimo, peccato fosse un bene demaniale: c’era la musica e l’attività para-teatrale per grandi e piccini e la produzione estera e la drammaturgia sperimentale e il “dibbbattito” e pure la partita – orrore orrore, dice oggi il regista e attore Gabriele Lavia). Ma perché lì?, era la domanda di chi rifiutava l’immagine di un Valle trasformato in palcoscenico da contaminazione “off” (che fosse avanguardia o meno lo vedranno gli storici del teatro, ma come metterla con la presa abusiva e prolungata di un bene pubblico? Gli occupanti però rispondevano: i teatri pubblici chiudono, la soluzione è il “governo partecipato”).
E oggi gli osservatori si ritrovano a chiedersi “chi ha vinto, chi ha perso?, senza potersi dare risposta univoca, come spesso accade davanti alle vicende in cui ambiguità prevalga. Ambiguità dell’azione occupante (arte o politica?, illusione o testardaggine?, protervia o idealismo?, imprudenza o onnipotenza?), ambiguità dell’inerzia istituzionale e ambiguità dell’accomodamento conclusivo, quello che permette a tutti di uscirne senza scorno (il comune cede però prevantivamente “sovranità”) ma con un dubbio: si è creato o no un precedente? Un bene demaniale si può occupare a patto che il governo del bene sia “partecipato” oppure l’occupazione resta illegale e, in quanto tale, non va “premiata” (e quindi riconosciuta?). Ai posteri la sentenza, intanto i quasi ex occupanti dicono di voler superare la “dicotomia legale-illegale” ragionando su “nuove forme giuridiche” e sul concetto di “governo dal basso”. Un sostenitore non integralista del Valle occupato, il giornalista e scrittore Christian Raimo, dice che la soluzione cui si è giunti non è il peggiore dei mondi possibili, anzi, ma che, come ha scritto sul Post, “della battaglia del Valle è stata riconosciuta una parte molto ampia e insufficiente al tempo stesso”. Non sono stati riconosciuti, dice Raimo, i “princìpi economico-gestionali che rimandano a un diverso modo di governo della cosa pubblica”. Si ritorna alla questione della Fondazione Teatro Valle Bene comune, cui il prefetto ha negato mesi fa statuto giuridico. Una fondazione modellata sul verbo dei suddetti giuristi benecomunisti, con qualche eccesso da modernariato combattente nella dichiarazione d’intenti (“istituzione dell’imprudenza”, “lucida follia”), forse recepita psicologicamente da un Marino Sinibaldi che, in questi giorni, si sente “tremare i polsi” dall’“emozione”, all’idea di “sperimentare” con gli occupanti promossi interlocutori del Valle una “nuova forma” di governo teatrale (quindi si può occupare un bene della collettività ed essere pure “inclusi” nel day-after con tanti ringraziamenti?, continuano a chiedersi i critici di un “riconoscimento” così generoso degli ex occupanti).
Fondazione Teatro Valle Bene comune: l’idea ora è di metterla in grado di stipulare con il comune addirittura una Convenzione. Gli occupanti quasi uscenti insistono sulla “turnazione” delle cariche nel futuro Valle e, in conferenza stampa, dicono parole inconsapevolmente in linea con l’idea rottamatrice del premier Matteo Renzi, uno non amato al Valle per motivi politico-economico-antropologici e per la dichiarazione “quando mi dicono che per salvare la cultura bisogna fare come al Valle dico che ci sono altre soluzioni”. E’ anche “una questione generazionale”, hanno detto infatti gli occupanti mentre il ministro della Cultura Dario Franceschini definiva “illegale” l’occupazione e “giusto” l’ultimatum dell’assessore. “Non ci può essere un direttore artistico a vita”, ripetevano i comunardi sognando la “rotazione” come principio del governo di qualsiasi cosa, per continuare sull’onda dei primi giorni di occupazione, quando, tutti in cerchio e tutti in streaming, croce e delizia dei tempi, leggevano a turno da un foglietto le formule della presa di potere collettiva, e facevano corvée per le pulizie (con esiti non sempre felici).
Vista l’inevitabile predominanza in assemblea dei più assidui, più convinti o più assertivi (e a volte più prepotenti o più ideologizzati, come in tutte le situazioni assembleari), il regista Daniele Timpano aveva commentato: “Utopie democratiche senza democrazie, centri di drammaturgia senza drammaturghi”. Raimo oggi dice invece che l’assemblea del Valle “era lo specchio dell’intelligenza o dell’ingenuità di chi partecipava, ma era anche un oggetto aperto, non gestito da pochi, contrariamente a quello che si diceva, ed era da quel caos che nascevano le idee”. Il “governo partecipato dal basso”, dice Raimo, per altre realtà ha “funzionato bene, come nel caso del Labsus Laboratorio di Bologna o del Teatro Quarticciolo di Roma”. Ma perché farlo proprio al Valle, teatro storico e della collettività ora da restaurare, in pochi autonominati occupanti e con bollette pagate dal comune? E però adesso, con il “riconoscimento” da parte del comune, il luogo pare diventato relativo, con tanti saluti alle querele dell’Agis “per occupazione a danno della collettività”, delle denunce di “concorrenza sleale” degli altri gestori di teatri, inviperiti con il Valle occupato che non pagava la Siae per contrarietà ideologica con l’idea stessa di Siae.
“E’ mancato il coraggio di prenderli subito a sculacciate”, gli occupanti, ha detto, intervistato da Repubblica, Gabriele Lavia, ex direttore del teatro di Roma, per il quale la colpa del prolungamento dell’occupazione “è dei sindaci che hanno avuto paura di sentirsi dire che erano troppo poco di sinistra, compreso quello di destra” (Gianni Alemanno). “Il Valle ha cercato di mostrare un’idea differente di gestione e produzione del teatro e della cultura”, ha detto invece, sempre su Repubblica, l’attore e drammaturgo Ascanio Celestini, sostenitore della primissima ora dei comunardi. Che siano tutti mezzi-sconfitti o mezzi-vincitori, tutti in trionfo o tutti perdenti, l’impressione è che, presso il cittadino, la vicenda del Valle sia diventata neutra come un sampietrino sconnesso del centro storico: sta lì e basta, se non inciampo manco lo vedo. “Facessero come gli pare, a me che mi cambia?”, diceva appena tre giorni fa un avventore romano della storica caffetteria Sant’Eustachio, poco distante dal teatro.
Magari non è comune sentire, ma se alla fine la vicenda si è risolta nel giro di una settimana, dopo anni di protocolli inevasi e patema d’animo istituzionale e periodiche dimostrazioni d’orgoglio occupante con “laboratori”, maratone artistiche e professori Rodotà, Mattei e Settis officianti; se alla fine pare tutto un minuetto, con il comune che loda e gli occupanti che si prendono il tempo di sbaraccare, sì, ma anche di autocelebrare la solennità del momento (dieci giorni con performance di attori provenienti dall’universo-mondo), allora vuol dire che si poteva risolvere pure prima, il cosiddetto “problema” dell’antico Teatro occupato che nessuno voleva disoccupare. E invece: invece da tre anni il Valle Occupato pareva la palude delle paludi per i sindaci e il fiore all’occhiello del discorso benecomunista, trionfo dell’ideologia “partecipata”: teatro Valle come l’acqua e il libero web, e pazienza se il Valle, bene demaniale, era intanto oggetto di un rimpallo tra ministero dei Beni culturali e comune dopo la dismissione dell’Eti, con concessione d’uso gratuita dal ministero al comune, per volere dell’ex assessore Umberto Croppi e sotto l’egida del Teatro di Roma.
Un teatro, il Valle, arenato nella secca del carrozzone istituzionale, ma non destinato alla “svendita a privati”, come si ventilava nei primi giorni d’occupazione, nel giugno 2011, e nelle leggende metropolitane che vedevano un misterioso imprenditore dei salumi interessato a insediarsi dietro ai velluti rossi – ci furono momenti di angoscia, nelle segrete stanze degli operatori culturali, quando qualcuno diffuse la voce che nell’ombra si muovesse addirittura un insospettabile Alessandro Baricco-privatizzatore, poi risultato innocente: di privato, al Valle c’era soltanto il marchese Del Grillo, quello vero e non del film (marchese Capranica Del Grillo, proprietario del foyer e dell’appartamento del custode, preoccupato per l’accumularsi di mesi d’affitto non pagati). E il Valle se ne restava lì, attraverso quattro governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi), ottenendo iniziali parole empatiche da Luca Cordero di Montezemolo che, in un giorno del 2011, dal vicino teatro Argentina, apprendendo della presenza di un manipolo di occupanti del Valle appena fuori dalla sala, diceva “li capisco”, non si augura “una vita da precario al peggior nemico” – ed era il primo sintomo di mistero buffo, quella improbabile solidarietà esistenziale di LCdM al “TVBC”, come hanno chiamato il Valle occupato in comune, tra una riflessione e l’altra sul misterioso report compilato dell’ex assessore alla Cultura Flavia Barca (report sull’occupazione poi “sparito”, dicono gli occupanti, e ricomparso a spezzoni sulle pagine del Fatto). Era, la comprensione di Montezemolo, l’indizio che il Valle occupato sarebbe presto diventato simbolo di qualcosa d’altro, e sarebbe stato occupato ancora a lungo: prima con la grancassa degli artisti e scrittori sostenitori (tra cui Fabrizio Gifuni, Emma Dante, Jovanotti, Andrea Camilleri), poi in sordina.
Qualcuno, con il passare dei giorni (come gli attori Silvio Orlando e Toni Servillo) da sostenitore aperto si faceva più silente. Giovani attori e tecnici invece accorrevano. Il Corriere della Sera interveniva periodicamente, con editoriali di Pierluigi Battista o di Paolo Fallai (che nel 2012 scriveva: “Gli occupanti” possono essere pure “bravi e simpatici”, ma rimangono “ una minoranza che si è arrogata il diritto di occupare un bene pubblico”). E se Repubblica sosteneva il Valle occupato a spada tratta, il sindaco Alemanno proprio a Repubblica scriveva la lettera aperta in cui, nell’autunno del 2011, prefigurava la soluzione conciliante: “Caro direttore, sono passati ormai quattro mesi dall’inizio dell’occupazione del teatro Valle e si tratta di un’azione, non ho difficoltà a riconoscerlo, condotta in un modo che rappresenta un esempio costruttivo di impegno per il bene pubblico…”, un’azione che “… gode di una popolarità e di una forza simbolica che a noi non sfugge e che vogliamo tutelare nell’interesse dell’istituzione, della drammaturgia italiana e della collettività…”. Non pareva così d’accordo, da sinistra, l’Unità (a un anno dall’occupazione, si chiedeva: “Che sia una privatizzazione mascherata?”). Parevano d’accordissimo, invece, le principesse che nel marzo scorso, a Bruxelles, insignivano gli occupanti del Princess Margriet Award della European Cultural Foundation – con cinquantamila euro di dote e plauso del direttore della Tate Modern Chris Dercon.
Il Valle occupato era, per gli attori e i registi e gli intellettuali critici dell’occupazione, un oggetto da maneggiare con cura, pena la riprovazione presso “l’ambiente” (chissà se sono stati scomunicati Salvatore Aricò, Franco Branciaroli, Leopoldo Mastelloni, Paolo Isotta, Paolo Guzzanti, Fulvio Abbate, Giordano Bruno Guerri, Daniele Pecci, Francesco Baccini, Ulderico de Laurentiis, Luca Barbareschi, Lando Buzzanca e Carla Fracci, firmatari dell’appello di Edoardo Sylos-Labini per uno sgombero “immediato” del teatro e una riconsegna “alla cittadinanza italiana e agli artisti, ripristinando i principi costituzionali e valori inderogabili di legalità”). Almeno all’apparenza, infatti, in alcuni anfratti di mondanità culturale, parevano tutti d’accordo con Elio Germano e Moni Ovadia, i paladini del Valle che magnificavano “l’utopia” fattasi realtà nel teatro occupato (surreali più che utopiche forono invece le ore in cui dall’antico foyer, con voce stentorea, passò lo ieratico compagno greco Alexis Tsipras, in piena campagna elettorale per l’omonima lista alle europee, e fu un momento di purificazione collettiva: tutti nella penombra ad ascoltare il leader di Syriza in lingua originale).
E’ quasi libero, il Valle, e nel “quasi” sta un intero mondo. “Ce ne andremo spontaneamente, ma non subito, fra dieci giorni”, hanno detto gli occupanti dopo la notte di passione e assemblea seguita all’annuncio dell’assessore Marinelli. Nell’apparente malumore generale, con tanto di residua resistenza trinariciuta all’idea della consegna al soprintendente (un’attivista vecchio-stile gridava al mediatore Sinibaldi “come ti permetti, tu sei uguale agli altri!”), ci si acconciava ad accettare il vantaggioso compromesso, e si perdevano i confini tra riappropriazione, occupazione, privatizzazione, gestione e partecipazione (magari pure confusione).
Il Foglio sportivo - in corpore sano