Le luci del male
Una coppia in crisi, un sex tape, un reality che ammazza la realtà. E dalle pieghe di un soggetto profano nasce un romanzo cattolico.
Eddie è un fallito di Broadway costretto a fare l’insegnante di teatro in un’altolocata scuola cattolica di Manhattan dove non potrebbe permettersi nemmeno in sogno di mandare i figli che non ha. Ha ottenuto una cattedra minore di St. Albert dopo che finalmente è divenuto chiaro anche ai suoi occhi quello che tutti sapevano: “Non riusciresti a interpretare in modo credibile un uomo sudato nemmeno dopo aver corso dieci miglia”, come dice la moglie, Susan, con quella speciale cattiveria di cui soltanto le mogli sono capaci. Com’è ovvio, la mancanza di figli è colpa degli spermatozoi sfiniti di Eddie, anche loro compartecipi del generale fallimento della sua vita.
Quando Susan gli rappresenta il desiderio di avere bambini – desiderio che trasecola presto nell’ossessione – lui reagisce con moderato entusiasmo, più per non deludere lei che per un reale sentimento di paternità, e asseconda con rassegnazione tutti gli intricati percorsi clinici che Susan impone per ottenere quello che alle amiche riesce con fastidiosa facilità. Il sesso diventa un atto medico da eseguire con regolarità e precisione, invariabilmente nella posizione del missionario e possibilmente pensando ad altro, “a giorni alterni dal decimo al ventesimo giorno del ciclo”, atto seguito immediatamente da mezz’ora di riposo, immobile e silenzioso, su uno speciale cuscino che – Susan lo ha letto online – favorisce la fecondazione. Dapprima è il termometro basale. Poi l’orologio notturno che misura la salinità del sudore. La medicina cinese, l’agopuntura, gli infusi alle erbe. “Il sesso si era trasformato da meramente funzionale a sgradevole e disperato. A volte Eddie scherzava: ‘Almeno ci divertiamo a provarci’. Ma aveva smesso di essere divertente da molto tempo”.
La fecondazione artificiale rimane l’unica alternativa possibile, soluzione sgradita alla cattolica Susan, ma le obiezioni circa il mezzo scolorano di fronte a tanto fine. La famiglia di lei aveva posto esplicite riserve di andamento religioso ma, lo sapevano tutti, non era che una scusa per nascondere il fatto che non avevano soldi per contribuire all’impresa. Perché l’assicurazione sanitaria – ed evidentemente il romanzo non tiene conto dell’Obamacare – non rimborsa del tutto la prestazione della clinica sulla Sesta avenue, quella con la più alta percentuale di successi in città, e la somma dello stipendio da insegnante di lui e di quello da impiegata in una galleria d’arte di lei non permette un investimento da 10 mila dollari a tentativo. Senza contare i debiti già accumulati. La questione si risolve nel più americano dei modi, con una carta di credito e poche domande: “Eddie era sorpreso, in astratto, che gli fosse concesso di spendere soldi che non aveva per una procedura che avrebbe immesso innumerevoli altre voci di spesa nella sua vita”.
E’ dopo il primo fallimento che Eddie inizia a considerare la classica offerta che non si può rifiutare fatta da un amico sbucato fuori dal passato: vendere un sex tape. Lo aveva girato con una sua vecchia fidanzata di nome Martha Martin, come lui giovane attrice in cerca di fortuna a New York, soltanto che lei aveva i numeri, il viso e il corpo per farcela davvero. Non aveva il coraggio di dire al suo Eddie la verità, ma già ai tempi bohémien della vita insieme, dei provini, delle notti insonni, delle paranoie da metodo Stanislavskij, delle feste e della dissipazione da giovani artisti, ogni cosa era chiara. Lui non riusciva nemmeno a piangere a comando, per dire. La telecamera di Martha era sempre sul cavalletto in un angolo dell’unica stanza della casa che dividevano, la usava per registrare le parti e rivedersi, correggere postura e intonazione, lavorare sulle espressioni; di tanto in tanto l’aggeggio caricato con una vhs catturava momenti non esattamente inerenti alla pratica teatrale, ma in fondo la cosa non dispiaceva a nessuno. Non che rivedessero o facessero vedere ad altri i loro momenti d’intimità, non c’era nulla di particolarmente morboso nell’abitudine, soltanto ingenuità e giovinezza e noncuranza.
Dieci anni più tardi però Martha è la star di un reality show che ha fatto bingo, il suo viso angelico compare su tutte le copertine patinate, nei siti di gossip, i suoi selfie rimbalzano milioni di volte sui social network, il problema più serio dell’industria che confeziona e diffonde celebrità è capire con chi uscirà a cena quella sera la reginetta dello showbiz nel massimo del suo splendore. E’ in questo punto della parabola che il manuale della perfetta celebrity prevede il riaffiorare di un sex tape dal passato. Il copione è noto: lei giovane, bellissima e ambiziosa, zero inibizioni; lui già meno giovane e certamente destinato a essere ricordato come “quello del sex tape con…” nella breve stagione che porta al prossimo sex tape, alla prossima starlette, al prossimo reality show. Con lo show “Dr. Drake”, Martha è entrata nell’olimpo dell’intrattenimento; Eddie è sempre un fallito di Broadway che ha bisogno di soldi per farsi una vita normale.
E’ un sex tape che muove la trama di “Arts & Entertainments”, il secondo romanzo di Christopher Beha, giornalista 34enne del magazine Harper’s, che aveva ricevuto un qualche riconoscimento un paio d’anni fa per la sua opera prima, “What Happened to Sophie Wilder”. Dal sex tape in poi la realtà di Eddie e Susan diventa un reality. Le sue illusioni di poter rimanere anonimo grazie a qualche taglio oculato della pellicola si infrangono miseramente contro gli ingranaggi spietati del business della celebrità, che tutto scova, rimastica e risputa a un pubblico che si accontenta volentieri anche degli scarti di lavorazione, se presentati in modo invitante. Ci sono gli estenuanti mesi di preparazione dell’uscita pubblica del sito che ha comprato il filmato, perché il tempismo è il segreto per catalizzare al massimo l’attenzione, poi le prime indiscrezioni filtrano in modo calcolato alla stampa, appare qualche trafiletto a mo’ di ballon d’essai, l’ambiente si surriscalda, girano voci che c’è in giro un video bollente di Martha con un tizio che non è il suo fidanzato ufficiale.
Gli studenti di Eddie scoprono dell’uscita del filmato prima dello stesso protagonista. Susan non sa che è stato lui a vendere il video per pagare l’inseminazione artificiale, non conosce la nobiltà delle intenzioni, ma le basta l’esistenza di quel ripugnante residuo di passato per scaricare “Handsome Eddie”, lo splendido Eddie, come lo chiamavano per celia i vecchi compagni del liceo. Ora tutto il mondo conosce il suo soprannome. Tutto il mondo sa dove abita, e ha visto in diretta tv la cacciata di casa. Al bar la gente discute delle sue scelte. Di quanto è stato stronzo a sputtanare il modello di femminilità e bellezza – magari non di verecondia, quello no – che i burattinai dello showbiz hanno creato dal nulla. Tutti sanno in tempo reale che l’inseminazione artificiale è andata a buon fine: Susan è incinta di tre gemelli. E tutti sanno altrettanto in fretta che Eddie è stato licenziato dalla scuola, nella quale i genitori difficilmente permettono che gli insegnanti siano i protagonisti di filmati che non farebbero vedere ai propri figli. Nel giro di un giorno Eddie è solo, senza lavoro e odiato dalla nazione, che già lo considera la sublimazione di tutti i peggiori peccati del mondo.
Susan è la metà opposta. Innocente vilipesa e per soprammercato abbandonata nel momento del bisogno, con tre creature da mettere al mondo e un fallito di marito che non è mai uscito dall’adolescenza. Improvvisamente è lei la star televisiva, scritturata per un reality show in cui le è chiesto semplicemente di dare all’audience affamata un po’ della sua vita sventuratamente affascinante. Il sommo produttore Moody, un incrocio fra il regista del “Truman Show” e Voland che tiene una sigaretta spenta in bocca e l’accende solo quando perde la pazienza, ha già programmato tutto. La riconciliazione fra Susan e Martha, un nuovo lavoro per lei, nuove case, nuove vite, nuovi fidanzati, nuove comparse, la preparazione della gravidanza sostenuta da milioni di americani che fanno il tifo per lei, e a questo punto nessuno si ricorda più per cosa esattamente Susan sia diventata famosa, ma il fatuo mondo della celebrità conosce soltanto la dimensione del presente. Il sex tape chi se lo ricorda più. Eddie è un’ombra che si agita dietro le quinte, cercando disperatamente di rientrare in scena, e nemmeno lui è certo se lo scopo reale sia riunirsi alla moglie che ama ancora o accaparrarsi una fetta della celebrità piovuta su di lei. In fondo il fallito di Broadway è lui, lei voleva stare a casa a tirar su i figli. Il lettore si trova a fare il tifo per la riconciliazione fra i due, e si rimane incollati fino all’ultima pagina per sapere se vivranno tutti felici e contenti oppure il reality fagociterà definitivamente la realtà, lasciando uno strato di nulla che il pubblico sembra desiderare in modo disperato.
Quello di Beha sarebbe un ottimo page-turner estivo molto pop perfetto per l’intrattenimento nei pomeriggi assolati. Ma c’è dell’altro. “Arts & Entertainments” è il rappresentante di un genere in via d’estinzione, il romanzo cattolico. “What Happened to Sophie Wilder” era la storia della conversione di una ragazza introdotta alla fede dalla “Montagna dalle sette balze” di Thomas Merton, roba esplicitamente religiosa, che conteneva quello che il critico D. G. Myers sulla rivista Commentary ha definito “la più bella scena di conversione scritta in lingua inglese dalla ‘Fine di una storia’ di Graham Green”. Forse perché dal romanzo di Green in poi (1951) le scene di conversione al cristianesimo tendono a scarseggiare. Nel secondo romanzo Beha prende la via dell’implicito, seguendo una tradizione di scrittori cattolici che non tematizzano questioni religiose ma le fanno affiorare all’interno di vicende laiche.
Lo scorso anno il poeta e critico Dana Gioia ha scritto sulla rivista First Things un corposo saggio sulla crisi dello scrittore cattolico contemporaneo. Non manca la nicchia di romanzieri che parlano di temi cattolici, dice, mancano quelli che parlano di temi comuni in modo cattolico. “Quello che rende cattolico uno scritto è che tutti gli oggetti sono permeati di una particolare visione del mondo”. Come si esprime questa visione del mondo in un romanzo? “Gli scrittori cattolici – scrive Gioia – tendono a vedere l’umanità che si affanna in un mondo corrotto. Combinano il desiderio della grazia e della redenzione con un profondo senso del peccato e dell’imperfezione umana. Il male esiste, ma il mondo fisico non è malvagio. La natura ha un carattere sacramentale, piena di tracce del sacro. In realtà, tutta la realtà è misteriosamente carica della presenza invisibile di Dio. I cattolici percepiscono la sofferenza come redentrice, almeno quando s’ispira all’imitazione della passione e morte di Cristo”. E ancora: “La visione cattolica del mondo non richiede un soggetto sacro per esprimere il senso dell’immanenza divina. La pulsione religiosa di solito emerge naturalmente dalla descrizione di una vita mondana invece di essere imposta intellettualmente a posteriori”.
Questa è la concezione che accomuna un’eterogenea schiera di scrittori cattolici da Flannery O’Connor a Ernest Hemingway, fino a Walker Percy e Evelyn Waugh. Beha, si parva licet, appartiene a questa schiera. Fra le pieghe del soggetto più profano che si possa immaginare, l’universo effimero delle celebrity, fastidiosamente superficiale e vacuo anche per chi religioso non è, affiora un sentire cattolico, addirittura l’abbozzo di un’antropologia di tipo religioso. In un’intervista lo scrittore ha detto: “Certamente non ho inteso fare un lavoro di apologetica cristiana nel quale faccio la diagnosi di una serie di patologie culturali e poi prescrivo la religione come cura. Allo stesso tempo penso che sia vero che molti degli aspetti preoccupanti della cultura dei reality sia la conseguenza diretta di una versione molto rigida del materialismo scientifico. Se l’intera esistenza è puramente fisica, allora una vita umana non è veramente vissuta se non è pubblicizzata e in questo modo verificata. Niente che non possa essere visto da un osservatore esterno ha valore, perché non è effettivamente reale, è al massimo un epifenomeno. D’altra parte, se crediamo che Dio ha donato a ciascuno un’anima e ci ha messi al mondo per una ragione più grande della nostra gratificazione personale, diventa più difficile trattare il resto del mondo come un pezzo della tua trama personale”.
Nel romanzo Moody teorizza che l’esistenza stessa della realtà viene decisa dall’audience: tutto ciò che è spettacolarizzabile è reale, il resto è materia informe e inverificabile, un groviglio di vite indegne di essere vissute o eventi marginali. Dio stesso è un surrogato dell’audience, tanto che i monaci di cui Moody una volta era fratello credevano di innalzare lodi a Dio, ma in realtà bramavano soltanto un pubblico. Il mondo di Beha, fedele al realismo cattolico, non distingue con l’accetta i buoni dai cattivi. Moody è l’inquietante incarnazione del materialismo da showbiz, dove tutto è merce e lo scopo ultimo è “fare grande televisione”, e accanto all’inquietudine compare anche il suo fascino luciferino che ammalia. La dinamica del reality show permanente dipinto dall’autore dà un senso di claustrofobia, eppure non mette mai il lettore nella condizione di deprecare un mondo di cui s’illude di non far parte. Non c’è alcun senso d’immunità, nessuna separazione radicale fra il mondo frivolo, consumista, ottuso, il “territorio del diavolo”, e lo scintillante io interiore delle coscienze illuminate. Bene e male si danno in un unico groviglio da sciogliere, aprendo il dramma della libertà umana, stretta fra i rimandi metafisici della realtà e l’intrigante materialismo del reality.
Il Foglio sportivo - in corpore sano