“Europa forte”: è possibile costruirla restando liberali? Secondo il premier ungherese, Viktor Orbán, occorre guardare ad altri modelli, magari non occidentali

Paradigma Orbán

Marco Valerio Lo Prete

Il leader ungherese sulla democrazia “unfit” per decidere nell’economia globale. Un nocciolo di verità e alcuni insegnamenti per Renzi. Parlano Gardels e Ricolfi.

L’establishment italiano non ha nemmeno terminato di tirare il proverbiale sospiro di sollievo per l’allontanarsi dell’èra tecnocratica di Mario Monti & co., che adesso già si trova a dubitare della reale efficacia del totus politicus Matteo Renzi. E non è soltanto questione di gusti politici, di preferenze per la destra o la sinistra, evidentemente. Perché, giusto per stare allo schieramento della gauche, da una parte si raccolgono firme contro la svolta autoritaria del nuovo presidente del Consiglio del Pd. Mentre dalle colonne di Repubblica, il Fondatore Eugenio Scalfari, di fronte agli insuccessi del Rottamatore in campo economico, domenica scorsa ha consegnato “un’amara verità” ai lettori: “Forse l’Italia dovrebbe sottoporsi al controllo della Troika internazionale formata dalla Commissione di Bruxelles, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale”.

 

Non solo: da qualche settimana sta diventando senso comune, anche tra commentatori di matrice liberal-liberista, o perfino terzisti, l’idea che nemmeno Renzi, al di là delle apparenze, possieda il piglio adatto per riformare l’economia italiana, oltre che le istituzioni del paese. Dario Di Vico, inviato del Corriere della Sera, ieri si è chiesto se, finito “un ciclo nettamente favorevole alla tecnocrazia”, adesso “l’inedito mix tra primato della politica ed empatia è davvero capace di produrre decisioni semplici a fronte di problemi complessi e di collegare il tutto a una lunga stabilità dei consensi”. Forse allora è il nostro regime politico a prestare sistematicamente il fianco a una deriva discutidora, al “culto del discussionismo” (come l’ha chiamato ieri Renzi intervistato da Repubblica), e quindi a impedire un atteggiamento decisionista?

 

Una domanda in tal senso era di fatto contenuta in alcune dichiarazioni della scorsa settimana di Viktor Orbán, primo ministro ungherese del partito conservatore Fidesz, passato da una vittoria elettorale all’altra dal 2010 fino a oggi, figura discussa nell’Unione europea di cui pure fa parte, in ragione di riforme controverse – per esempio – sull’autonomia della Banca centrale di Budapest, sull’indipendenza dei media e sul codice penale. Ha sostenuto Orbán, durante un comizio, che “le società liberal-democratiche non possono rimanere competitive a livello globale”. I loro meccanismi decisionali non sono più al passo dei tempi. Così Orbán ha reclamato il diritto di lavorare alla costruzione di uno stato sì democratico ma non liberale. E non per suo schiribizzo personale: “Oggi il mondo intero cerca di comprendere il funzionamento di sistemi che non sono occidentali, che non sono liberali, forse nemmeno democratici, eppure sono di successo”. Poi ha fatto esplicito riferimento ai casi di Singapore, Cina, India, Russia e Turchia. E se in dichiarazioni così scorrette e pericolose ci fosse un che di sensato?

 

Replica Luca Ricolfi, sociologo dell’Università di Torino, che domenica sulla Stampa ha scritto un editoriale critico dell’attuale governo Renzi, intitolato “Chi ci rimette con il primato della politica”: “Il tema posto da Orbán sulle disfunzionalità delle nostre democrazie non è poi così politicamente scorretto. La cancelliera tedesca Angela Merkel, per esempio, ha posto il problema di un continente, quello europeo, che, con il 7 per cento della popolazione mondiale e il 25 per cento del pil, pensa di poter assorbire oltre il 50 per cento del welfare globale. Il filosofo Ralph Dahrendorf, scomparso nel 2009, citava anch’egli il caso di Singapore, col suo modello di autoritarismo soft e successo economico. E ragionava sulla difficoltà dei nostri regimi politici di tenere assieme sviluppo economico, coesione sociale, democrazia, soprattutto se l’obiettivo resta comunque quello di prendere decisioni”. Detto ciò, Ricolfi dice di “dubitare” di chi ponga questo problema “da un pulpito di governo”, come a dire che “secondo un approccio autoritario si potrebbe pensare a un tentativo di limitare le libertà personali”.

 

“Però c’è un altro approccio al problema, quello per esempio del liberale Kenneth Minogue”, più fecondo di insegnamenti per il caso italiano. In quest’ottica “lo stato moderno è diventato oppressivo per la quantità eccessiva di compiti che si è autoassegnato e per l’uso smodato che ha fatto della legislazione. E’ il modello dell’Europa continentale, e in questo campo l’Italia ha fatto tutti i compiti a casa, purtroppo anche di più”. Al punto di ritrovarsi in una situazione di apparente irriformabilità: “La ricerca a tutti i costi del consenso e della condivisione paralizza le nostre democrazie. Si veda pure, a livello comunitario, cosa accade con la politica estera comune o con le scelte sulla moneta unica. In Italia c’è solo una differenza di grado, non qualitativa, rispetto a questo vizio di fondo”. Ora però Renzi è accusato da più parti di arroganza e modi spicciativi nei confronti delle opposizioni: “Le accuse di ‘autoritarismo’ mi paiono infondate. Che Renzi critichi il ‘discussionismo’ e poi decida è nel suo pieno diritto. Il problema del ritorno in grande stile del primato della politica è un altro”. Non quindi il fatto di far saltare la concertazione continua con sindacati e imprenditori, né l’idea di fare una riforma della giustizia senza aspettare il consenso dell’Associazione nazionale magistrati: “Il problema è l’apparente disprezzo per qualità come l’esperienza, la competenza e la preparazione tecnica. Fedeltà e appartenenza non possono essere gli unici criteri di selezione della classe dirigente.

 

Ecco, quello italiano oggi è un difetto di cultura, non di democrazia. Ma questo difetto frena le capacità decisionali della politica”. Di esempi Ricolfi ne fa diversi: “Ora la concertazione su materie come il regime pensionistico avviene non al tavolo di Palazzo Chigi ma tra le correnti del Pd in Commissione parlamentare. Allo stesso tempo si fa deliberatamente a meno di quel paio di giuslavoristi che sulla riforma del lavoro hanno per esempio studiato una vita. Ancora: sulla legge elettorale si avanzano tre proposte giudicate equivalenti, altro che decisionismo”. Al sociologo piace una metafora: è come se per costruire un aereo si volessero chiamare a raccolta ogni volta tutti i fornitori di pezzi e poi si tentasse di metterli d’accordo. Invece un progetto ingegneristico alla base ci deve essere. Punto e basta. “Oggi questa presunzione di autosufficienza della politica, associata alla convinzione che il consenso vada trovato sempre e comunque, è molto diffusa. Non ovunque, certo, come dimostra il funzionamento migliore delle democrazie anglosassoni. In Italia tale presunzione di autosufficienza della politica rischia di diventare fatale, considerato che ci muoviamo in un ambiente economico globalizzato e complesso. Ci sono momenti in cui occorrono decisioni veloci, si pensi alla crisi dell’euro. E ci sono momenti in cui occorre districarsi in materie complesse, perciò è necessaria padronanza del problema. Se invece l’obiettivo di una riforma del lavoro è solo quello di far convergere le correnti del Pd e il Nuovo Centrodestra…”.

 

Sono riflessioni almeno in parte sovrapponibili a quelle di Nathan Gardels, politologo e autore nel 2013 del saggio “Una governance intelligente per il XXI secolo” (Polity), sottotitolo: “Una via di mezzo tra occidente e oriente”. Gardels infatti riconosce l’esistenza di un nocciolo di verità nelle parole di Orbán: “Il leader ungherese ha ovviamente ragione quando sostiene che le democrazie occidentali risultano sempre più disfunzionali nell’attuale contesto”. Poi però aggiunge: “La risposta non è un ritorno a Mussolini, o ancora peggio, a un nazionalismo etnico à la Putin, come sembra intendere Orbán”. “Quello che sembra piacere al leader ungherese è il dominio incontrastato di un solo partito. Non c’è dubbio che, storicamente, una situazione simile abbia reso possibile uno sviluppo economico sostenuto, non solo in paesi come Singapore e Cina, ma anche in democrazie liberali come il Giappone e la Svezia. Nessuno di questi due paesi, però, era ‘illiberale’ come teorizza Orbán”, dice il direttore del World Post (edizione globale dell’Huffington Post), teorico della democrazia elitaria e più volte citato da Mario Monti nel suo libro “La democrazia in Europa”. “I nazionalismi, anche se alla fine diventano sempre totalitari, come sosteneva il primo ministro canadese Pierre Trudeau, continueranno a riemergere come alternative attraenti. Questo finché le democrazie occidentali continueranno a vivere come se nulla stesse succedendo, senza compiere un po’ di autocritica e senza evolvere in una direzione – quella teorizzata per esempio da me o dal vostro ex presidente del Consiglio Monti – che combini partecipazione democratica e più competenza meritocratica”.

 

Secondo Gardels, “il paradosso dell’occidente è che più le società diventano pluralistiche e maggiore è la partecipazione politica e sociale attraverso l’uso dei social media, tanto più i regimi politici avranno bisogno di istituzioni meritocratiche che svolgano un ruolo di mediazione. Istituzioni non partigiane, depoliticizzate e altamente competenti. Non uno statalismo nazionalista come sembra suggerire il primo ministro ungherese, ma una forma ibrida di governance”. Per cosa tornerebbe utile un ricorso più massiccio a esperti, tecnici, autorità giurisdizionali o d’altro tipo? “Ad affrontare il limite che interessi particolari e di breve termine impongono alle scelte politiche di lungo termine, come è naturale con i nostri cicli elettorali”. Qualcosa da insegnarci, secondo Gardels, ce l’ha anche la Cina, “dove resiste il principio della meritocrazia nella selezione della classe politica e non si arriva ai vertici del Partito comunista senza aver governato per almeno due mandati una provincia grande come l’Italia. Ma tutto ciò diventa ingiusto e inefficiente perché perseguito a scapito della libertà d’espressione e della contendibilità del potere”. Va ricercata “una mediazione, senza ridurre le libertà civili, e senza affondarle in concetti come quello di ‘nazione’ o ‘etnia’. Risultati migliori si ottengono ristrutturando i nostri sistemi politico-elettorali”.

 

Per questo Gardels, che dell’Italia è osservatore attento, dice che “ha molto senso la proposta di Renzi di riformare il Senato e mettere fine al bicameralismo perfetto. Non c’è nulla di sacro nel fatto di avere due Camere elette direttamente dal popolo che duplicano i loro compiti, con una che magari cancella l’operato dell’altra e viceversa. L’Italia ha esagerato, sulla scorta dell’esperienza del regime fascista, con i meccanismi di controllo e bilanciamento per limitare il potere esecutivo”.

 

Oggi invece, in tutto l’occidente democratico, “il problema non è quello di esecutivi troppo potenti, ma piuttosto quello di un corpo politico profondamente diversificato e pieno zeppo di interessi confliggenti. Sono più numerosi i meccanismi di controllo, o checks, che quelli di bilanciamento, o balances, nell’attuale sistema italiano, e questo favorisce il prevalere di interessi particolari e di breve termine. Una via per ritrovare un equilibrio è quella di attribuire una rappresentanza funzionale al Senato, con Comuni e Regioni rappresentati come richiesto da Renzi, oppure con i senatori a vita per cercare di tutelare scelte lungimiranti”. Altre vie potrebbero essere quelle che puntano a creare “un flusso democratico continuo”, come accade con “i sistemi di e-democracy in Estonia o con quelli di democrazia deliberativa che propongo per la California”. La fantasia deve andare al potere, dunque, se le nostre democrazie vogliono tornare a pedalare, di certo tentando di superare l’involuzione attuale in “vetocrazie, dove i protagonisti corporativi, dai sindacati alla finanza, preferiscono essere in grado di comprare voti e consensi piuttosto che consentire un cambiamento strutturale della governance che garantisca a tutti gli interessi in campo di essere ugualmente rappresentati”, conclude Gardels.

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