Ecco perché l'avanzata dei cinesi in Borsa è anche cosmetica

Alberto Brambilla

Pechino compra piccoli pezzi dei gioielli di Piazza Affari per rifarsi un’immagine in Italia, e il consenso s’allarga.

Ai cinesi sono serviti anni per fare breccia nell’establishment politico italiano, con alterne fortune. Ma con gli investimenti miliardari realizzati in questo ultimo mese dagli intermediari finanziari del governo di Pechino sembra ufficialmente cominciata l’opera di sdoganamento del Dragone in Italia. Nel mese di luglio, la Banca centrale cinese ha comprato quote di poco superiori al due per cento in società private quotate a Piazza Affari, quanto basta per uscire allo scoperto coi rilievi Consob: in Fiat-Chrysler detiene il 2 per cento; in Telecom, alle prese col disimpegno di Telefónica, il 2,08 per cento; in Prysmian, multinazionale dei cavi, il 2,01 per cento. Il tutto per un esborso complessivo, relativamente contenuto, di 500 milioni di euro. Acquisti che seguono di pochi mesi quelli in società a partecipazione pubblica con rendite monopolistiche come Enel (2,07) ed Eni (2,1).

 

Operazioni significative più per il loro valore simbolico che per quello finanziario, se osservate dal punto di vista di Pechino che dispone di una potenza di fuoco da 4.000 miliardi di dollari ma negli ultimi cinque anni ha realizzato solo l’8 per cento dei deal europei con l’Italia (il primato spetta al Regno Unito col 24). “I cinesi hanno superato di poco la soglia delle partecipazioni rilevanti, per farsi vedere. E’ un segno di amicizia, se vogliamo, ma significa anche agganciarsi a centri di potere nazionali significativi pure a livello mediatico in un paese sostanzialmente loro ostile”, dice Alberto Forchielli, amministratore delegato del fondo Mandarin Capital Partners. La reputazione cinese in Italia d’altronde è pessima: il 70 per cento degli italiani ha un’immagine negativa della Cina e il 75 per cento pensa che la sua crescita economica sia un “male” per il nostro paese, dice un sondaggio del Pew Research Center uscito a luglio.

 

Nel mondo solo i giapponesi hanno un’opinione peggiore. Difficile parlare di cavalcata cinese in Borsa, per ora. Pare piuttosto un soccorso (interessato) motivato dallo stato di necessità del nostro paese, dice Romeo Orlandi, vicepresidente dell’Osservatorio Asia. “Finora i precedenti governi si sono potuti permettere obiezioni oppure cercare di intavolare rapporti amichevoli. Ora sono sbiadite le considerazioni anacronistiche sull’identità nazionale, il governo Renzi si è mosso con pragmatismo: dobbiamo vendere, disponiamo dei cosiddetti ‘gioielli di famiglia’ e i cinesi hanno le casse piene. Resta da capire se seguiranno le nostre regole o se verranno costretti a comportarsi bene, e quale sia la nostra strategia che al momento non c’è. Ora dovremo ‘imparare facendo’, come recita un motto cinese”.

 

La politica ha avuto un atteggiamento altalenante nei confronti della Cina, minaccia e benedizione. Il capostipite delle “cineserie” fu Romano Prodi, erede della visione del democristiano Vittorino Colombo, che da presidente del Consiglio nel 2006 guidò una maxi spedizione di imprenditori a Pechino.

 

Prodi fondò il centro studi Nomisma che tra l’altro si cura d’indirizzare la Banca di Sviluppo cinese verso le Pmi italiane. Tesse relazioni pure Cesare Romiti, ex Fiat e uomo di Cuccia in Mediobanca, con la sua Fondazione Italia-Cina tra sponsor e iniziative. Il centrodestra ha invece avuto un atteggiamento ondivago. Berlusconi assecondò gli umori degli imprenditori preoccupati del pericolo giallo e scottati dalle pratiche scorrette subite in oriente. Il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, critico della globalizzazione, stigmatizzò l’ingresso troppo frettoloso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, ma poi s’è piegato alla Realpolitik: in due viaggi, con annessa lectio magistralis alla Scuola del Partito, ha visitato il fondo sovrano cinese con la brochure dei Bot in una mano e lo scrigno della Cassa depositi e prestiti (Cdp) nell’altra. Il tecnico Mario Monti saggiò anche lui le possibilità d’acquisto dei bond italiani sui quali all’epoca ballava giuliva Lady Spread. I risultati furono in realtà scarsi, gli investimenti in titoli pubblici, se sono arrivati, non sono stati massicci.

 

Ad attirare l’interesse cinese sono ora gli asset energetici dove si palesa l’altra faccia del nascente partito cinese in Italia. China State Grid ha comprato il 35 per cento di Cdp Reti, ingresso incentivato dal presidente Franco Bassanini – che incassa una fiche da 2 miliardi – con l’advisor Morgan Stanley, banca guidata in Italia da Domenico Siniscalco. L’ingresso dei cinesi nella compagnia della rete energetica ad alto tasso di rilevanza strategica è parsa inusuale. Manovra simile fu infatti negata ai cinesi di H3g con Telecom Italia, considerata intoccabile. Si sbracciò inutilmente l’allora presidente Franco Bernabè, tessitore di rapporti con Pechino, che peraltro ha guidato tutte le società del recente filotto di acquisti (Eni, Enel, Telecom) e ora siede nel board di PetroChina. Un altro tassello dell’avanzata cinese è l’ingresso di Shanghai Electric in Ansaldo Energia, oleato dall’advisor Rothschild, maison guidata da Alessandro Daffina, apparso ieri entusiasta della nuova ondata in un’intervista al Sole 24 Ore. A Pechino sperano che il “partito cinese” in Italia li aiuti per ora a rifarsi un po’ il look.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.