Gli immigrati clandestini in Stazione Centrale sono scortati dalla polizia prima di essere tradotti nei centri di accoglienza milanesi (foto LaPresse)

Sbarchi a Milano

Cristina Giudici

Da Lampedusa alla Stazione centrale, ma con un biglietto di sola andata. La macchina dell’accoglienza a due passi dal Duomo. L’emergenza umanitaria vista dalla Lombardia è altra cosa nella forma da quella siciliana, ma non nella sua essenza.

Milano come Lampedusa? S’intitola così il breve dossier sull’emergenza siriana a Milano curato dall’assessore alle Politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, con Caterina Sarfatti dello staff del sindaco Giuliano Pisapia, per spiegare in un breve diario di bordo, la copertina disegnata a passaporto, come è stata governata l’emergenza dei profughi siriani, ma ora anche eritrei, arrivati (transitati, accolti), nella città ambrosiana.

 

Con uno sforzo quasi eroico, per la città indaffarata ma anche un bel po’ affaticata di suo; uno sforzo a tratti anche caotico, perché la prospettiva vista da una nave militare in mare è molto diversa da quella osservata dallo sbuffante naviglio di pianura, di suo già complesso da governare. “Si deve capire che l’Italia è diventata terra di transito per andare più a nord, e per questo motivo ci vorrebbe un permesso umanitario europeo per evitare che si creino troppi circuiti illegali e paralleli”, spiega l’assessore Majorino al Foglio. L’emergenza umanitaria vista dalla Lombardia è altra cosa nella forma da quella siciliana, ma non nella sua essenza. Qui l’hub portuale su cui si riversano come torrenti in piena i corpi dei migranti e dei profughi non è Taranto, Lampedusa, Pozzallo (dove ieri è approdata la nave Dattilo della Guardia costiera con 958 migranti a bordo), ma il mezzanino della Stazione centrale, appena tirato a lucido in uno stridente contrasto visivo. Mentre gli “scafisti” sono i passeur che raccolgono i profughi vicino ai binari di Milano, per portarli più a nord. Grazie alla distrazione delle istituzioni governative – o al tacito accordo – che si sono dimenticati di identificarli.

 

Solo che questo hub è un piccolo spazio destinato ai profughi, creato in mezzo alle scale mobili, fra i binari e i negozi frequentati da turisti e da viaggiatori business di prima e seconda classe che, distratti, non si accorgono nemmeno di cosa stia accadendo a Milano. E cioè che da ottobre dell’anno scorso nel capoluogo lombardo, o per meglio dire nel suo scalo ferroviario principale, sono passati 22 mila profughi, di cui 15 mila siriani, quasi 7 mila eritrei e 5 mila minori. E solo 39 di loro hanno chiesto asilo in Italia. Gli altri, una volta sbarcati nei porti siciliani, vengono quassù per scappare in treno, per trovare un temporaneo rifugio, riposarsi e poi proseguire verso la Svezia o la Norvegia. Approfittando di un vuoto normativo nel diritto europeo che permette loro di diventare fantasmi. Perché sanno che, grazie al trattato di Dublino, devono chiedere asilo al primo paese che li identifica. E così i volontari del comune di Milano e delle associazioni umanitarie arrivano al mezzanino della Centrale per aspettare i profughi che arrivano ogni giorno in treno da Catania, Taranto o Reggio Calabria.

 

Manuela Brianza, avvocato, collaboratrice dell’assessorato alle Politiche sociali del comune di Milano, racconta che si sa più o meno quanti ne arrivano ogni giorno solo perché il capotreno avvisa per telefono. E sanno, più o meno, quanti ne scenderanno alla stazione di Porta Garibaldi dal treno delle 2 e 40 da Reggio Calabria. Anche se ora la situazione si sta complicando perché al mezzanino arrivano tutti, da diversi luoghi, non solo dai porti del sud, anche dalle province del nord, dove sono stati trasferiti con gli aerei del ministero dell’Interno, perché il tam-tam corre veloce e ormai si sa che a Milano – ancora una volta col cuore in mano e il portafoglio aperto del ministero dell’Interno, 2 milioni e mezzo di euro fino al giugno del 2014, quasi 5 milioni di euro fino alla fine dell’anno – li accoglierà (quasi) senza riserve.

 

Nelle ex scuole abbandonate, dormitori affidati ad associazioni umanitarie, e ora persino in una rinomata scuola meneghina, Manzoni, dove alla sera volontari di associazioni umanitarie e poliziotti municipali, coordinati dall’assessore alla Sicurezza Marco Granelli, portano gli eritrei – quelli fuggiti per non fare il servizio di leva – nella palestra scolastica. Ed evitare che rimangano a vagare nella zona multietnica di Porta Venezia, suscitando ansie e proteste dei residenti. E’ un’emergenza silenziosa, quella che si dirama dal mezzanino-hub della Stazione centrale di Milano verso i centri di accoglienza. Diversa nella forma da quella siciliana perché il mare qui si trova fra i binari della Stazione centrale e gli eroi sono funzionari del comune, volontari della protezione civile e di associazioni umanitarie, giuristi, poliziotti municipali, vigilanti della Polfer (la polizia ferroviaria), medici di un presidio giornaliero a chiamata, educatori e persino autisti dell’Atm, che manda gli autobus nei giorni in cui gli sbarchi in stazione sono troppo numerosi. Fino a ora ha funzionato perché i siriani, profughi composti, spesso membri di una classe dirigente in fuga dalla guerra civile, arrivano, salgono sulle navette della protezione civile o della cooperativa Universiis e vanno nei centri di accoglienza, in periferia, dove permangono per pochi giorni per poi partire per la Svezia, per la Norvegia, senza tornare mai indietro.

 

Arrivano al binario 17 della stazione di Porta Garibaldi che per loro è un po’ come il binario 9 e 3/4 della stazione di King’s Cross di Londra raccontato nei libri fantastici di Harry Potter, perché una volta arrivati a Milano, dopo aver speso, dicono fino a 25 mila euro per poter fuggire dalla Siria, arriva la speranza di poter ricominciare da capo, altrove. Sono famiglie intere, uomini, donne e bambini, che attraversano il Mediterraneo in barca, l’Italia in treno, e arrivano al mezzanino-hub: luogo di sosta, di transito e di attesa. A un banco, i volontari registrano i nomi per decidere dove portarli a riposare, per nutrirli, vestirli, e dare loro qualche giorno di tregua, per poi ripartire. Sui muri del mezzanino una mappa geografica, perché i profughi capiscano da dove sono arrivati e dove vogliono andare. I medici si aggirano con medicine e termometri in mano, ma si lamentano della mancanza di un presidio permanente dell’Asl, mentre un poliziotto della Polfer, esausto, porta una bambina che si aggirava da sola fra i negozi negli uffici della polizia ferroviaria. E allora tocca ai volontari intervenire, per riportarla dalla famiglia. E qui, seduti sulle panchine, mentre aspettano le navette, i siriani raccontano ai volontari di essere medici, musicisti, imprenditori, ingegneri, militari disertori che non vogliono combattere una guerra che non è la loro guerra. E devono trovare un paese in grado di dare loro un futuro idoneo, che ovviamente non può essere l’Italia – per loro straordinaria per l’accoglienza, ma troppo precaria per rappresentare una nuova chance. E infatti arriva un medico che si lamenta perché oggi fuori dalla stazione non c’è il tendone della Protezione civile: “C’è stata un’evacuazione in una palazzina in Porta Romana e anche l’esondazione del Seveso”, replica con calma l’assessore Majorino, che cerca di governare l’emergenza Siria con polso fermo dall’ottobre scorso.

 

Con uno sguardo all’accoglienza e uno attento alla legalità, per non creare disagi ai milanesi, residenti nel quartiere multietnico di Porta Venezia. Insofferenti soprattutto ai bivacchi degli eritrei, profughi disgraziati, sfuggiti alla leva militare, magri, senza soldi, anche loro recalcitranti a chiedere asilo in Italia, ma troppo miserabili per continuare il viaggio verso il nord Europa. Sono uomini soli, giovani e disperati. Pochi se ne accorgono, ma dentro la metropoli milanese, esiste un circuito dell’emergenza umanitaria che lavora, come nel canale di Sicilia e nei porti siciliani, senza fermarsi mai. In realtà il governo potrebbe dare loro un permesso umanitario provvisorio, come si fece nel 2011, quando arrivarono 17 mila tunisini, e l’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni, cercò di facilitare le loro partenze innescando un braccio di ferro con la Francia.

 

Con i siriani è diverso: vanno via da soli e non tornano mai indietro. Una volta arrivati in Svezia mandano messaggi di ringraziamento agli italiani che li hanno evangelicamente accolti, nutriti, sostentati, e qualche selfie per un ricordo omaggio. Come raccontano educatori e volontari del centro Farsi Prossimo della Caritas, nel centro Nazareth, alle spalle del PalaSharp, prima utilizzato per dare asilo alle ragazze madri, ora ribattezzato Suraya, per via della prima bimba profuga siriana nata a Milano. Qui i volontari non fanno in tempo a memorizzare i volti, a fissare in testa i nomi dei loro ospiti, che già se ne sono andati. Chiudendo un occhio sul traffico esterno dei passeur, gli scafisti di terra, che vengono a recuperarli per portarli al nord. O meglio limitandosi a chiedere alla polizia di allontanarli dai centri di accoglienza, perché si può far finta di nulla – come fanno le istituzioni, ben felici di ospitare profughi di passaggio, altrimenti Milano diventerebbe una polveriera – ma esserne complici no, non si può. E così si lavora ventiquattro ore su ventiquattro, sul filo del rasoio, aiutando tutti, fra le pieghe dei vuoti normativi delle leggi. Nonostante gli appelli al Viminale che arrivano sui tavoli di Bruxelles.

 

I migranti appena arrivano ricevono un kit igienico, vestiti, e una stanza spartana, ma accogliente, con il giardino interno e il parco giochi per i bimbi, e gli educatori, i volontari si confondono un po’ se come succede oggi una famiglia torna indietro, perché, pare, il passeur non aveva ricevuto i soldi dalla Siria. La macchina dell’accoglienza prosegue, ma comincia a essere intimorita dalla prospettiva che Milano col cuore in mano e il portafoglio aperto del Viminale possa diventare un imbuto. Come spiega invece Alberto Sinigallia, il presidente della Fondazione Arca, dove a Quarto Oggiaro, nel ventre molle della periferia milanese, ospita 350 siriani in una ex scuola di via Aldini, a poche centinaia di metri da un’altra ex scuola, che invece ospita gli eritrei, divisi dai siriani sia per ragioni culturali sia religiose.

 

“Oggi ne abbiano a Milano oltre mille, ma se si fermano, siamo nei guai”, ammette il presidente della Fondazione Arca onlus. E si chiede cosa succederà dopo il 20 agosto, quando la scuola Manzoni dovrà mandare via i suoi ospiti eritrei, per preparare l’apertura della scuola. Nessuno lo sa, perché a terra la macchina dell’accoglienza è più dispersiva, frammentata e frammentaria, ma pochi sanno che alla sera, quando si devono riportare gli eritrei nei dormitori – a cercarli nel parco di via Palestro, dove c’era lo zoo e anche il giardino dedicato a Indro Montanelli – ci vanno anche i volontari, per convincerli a uscire, ad andare nei ricoveri.

 

E non è sempre così semplice gestire un transito di un’emergenza pacifica, composta, come quella siriana, se poi accade come è successo una volta che un membro di un’associazione integralista si è presentato nell’atrio con una mazzetta di euro in mano da distribuire ai fratelli musulmani. Individuato dagli operatori, chiamata la Digos, l’evento spiacevole non si è più ripetuto, ma l’episodio serve per capire quanto sia complesso anche a Milano gestire la macchina dell’accoglienza, che non si ferma mai. E una prospettiva, per gli operatori inquietante, che ai profughi in transito si sommino quelli invisibili, che non hanno voluto farsi identificare, ma non hanno un progetto migratorio. Ai quali potrebbero aggiungersi tutti quelli che arrivano da ogni parte d’Italia. Anche se Desio, un educatore di Farsi Prossimo la rende facile e dice così: “Se possiamo permetterci di ospitare milioni di visitatori per l’Expo, cosa vuole che siano 20-30 mila profughi a Milano?”. Meno ottimista il presidente della Fondazione Arca, un’organizzazione addestrata alle emergenze sociali, che invece li ha visti i porti siciliani, ha letto i report sugli arrivi, e continua a scuotere la testa, inquieto.

 

Una donna siriana, 28 anni, si avvicina con i suoi due bimbi gemelli e in un inglese stentato chiede delle maglie più pesanti per i bimbi. Arrivata dall’Egitto, ha dovuto aspettare suo marito, disertore dell’esercito siriano, che è arrivato dalla Turchia. “Non voleva più uccidere nessuno”, racconta. “Non è che qui posso trovare un lavoro? Io sono ingegnere”, chiede. E davanti all’espressione sconcertata dell’educatore che teme il tam tam, anche-in-Italia-si-trova-lavoro, si capisce che Milano, eroica per mesi, da mesi, quasi silenziosamente, prima di andare dal Viminale per chiedere strutture più idonee, come le caserme, teme di collassare. Ma gli eroi sono eroi e a noi, osservatori di passaggio, che siano marinai, educatori, assessori, poliziotti, vigili urbani, volontari, non importa, non resta che continuare a venerarli.

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