Il segreto triste del fallimento di Obama, simbolo retorico
Da dove viene un così tremendo fallimento? Il presidente degli Stati Uniti è un simbolo, d’accordo. Ma di che cosa?
Da dove viene un così tremendo fallimento? Barack Obama è un simbolo, d’accordo. Ma di che cosa? Lo osserviamo da molti anni. Questo giornale, per la mano felice di Stefano Pistolini, lo indicò “prossimo presidente degli Stati Uniti” con grande anticipo e con certezza di tratto da indovini. La sua arte del discorso o retorica ci è sempre sembrata affascinante. Per certi aspetti, si era presentato come un leader cristiano, il che di questi tempi occidentali obliosi in cultura e cemento di fede era una bella novità. Poi aveva detto che non poteva lasciare fuori della porta della politica la sua religione. Poi che la famiglia senza padre, in particolare tra la popolazione nera afroamericana, era una catastrofe sociale e nazionale, e aveva esortato i padri a non abbandonare figli e mogli, a non considerarsi eterologi per così dire (altro che frivolezze sulle nozze gay). In economia è sempre stato un centrista aggregato al carro liberista, ma interventista senza illusioni, della Federal Reserve; e d’altra parte l’economia americana si riprende, con i posti di lavoro, la propensione agli investimenti e ai consumi, la fiducia nella vita e nell’esperienza e nel fa’ da te, i progressi inventivi della ricerca tecnologica e scientifica, del tutto o quasi indipendentemente dalle politiche pubbliche. In più Obama era un simbolo perché nero, borghese nero ben istruito, primo della classe e ambizioso supereroe che in tutto il mondo era capace di miracol mostrare. Che si vuole di più dalla vita, specie di questi tempi?
Obama ha altre caratteristiche buone. E’ della scuola politica di Chicago, una specie di Firenze americana tutta trucchi e sotterfugi, ma con un metodo e forse dei principi. Aveva truccato le carte retoriche spingendo i creduli a pensare all’eliminazione imminente di Guantanamo, ma una volta eletto se ne guardò bene. L’amministrazione, che è una macchina tecnica complessa illuminata dalla continuità politica, sopra tutto nei foreign affairs e nella sicurezza, Obama l’ha guidata senza nulla concedere al discontinuismo ideologico dei nemici di George W. Bush, il guerrafondaio cosiddetto. E infatti, con i metodi e gli uomini dei Cheney e dei Rumsfeld, alla fine ha anche avuto ragione di Bin Laden. Il presidente non ebbe dubbi nemmeno sulle regole del famoso patriot act, quelle che fanno venire giustamente i brividi ai liberali puri, mentre sono considerate necessarie dai liberali impuri come noi: sotto Obama si è spiato come non mai, e la privacy del mondo intero, sebbene con l’avvertenza di non fare un uso fazioso e distorto dei dati antiterrorismo, è andata a farsi fottere sotto il dominio della Nsa, l’agenzia per la sicurezza nazionale. I droni, poi, hanno sorvegliato i cieli del Waziristan e altri cieli, e sono stati usati come sostituto della guerra guerreggiata, hanno fatto com’era tragicamente ovvio una quantità di vittime civili, oltre ad aver colpito capi e infrastrutture del jihadismo terrorista. Altro che Gaza.
Ecco, nonostante questi elementi, che ci portarono a non poter non dirci obamiani, il fallimento strategico è completo, senza paragoni con gli esiti controversi ma micidiali per il nemico della stagione di risposta all’11 settembre guidata dai predecessori di questo presidente democratico della speranza e del cambiamento. Libia, fallimento. Ritiro dall’Iraq, per tempi e modi e capacità politica di assestare poteri e coalizione: fallimento grave, con ripercussione spettacolare di Califfi e nuove persecuzioni da un nuovo stato terrorista a cavallo tra Aleppo e Baghdad. Siria: una carneficina e uno smottamento dell’autorità americana che non ha paragoni nel recente passato. Nessuno più crede a chi fissò una inesistente linea rossa, e nel giubilo degli incoscienti politicamente corretti teorizzò come un bene la propria riluttanza di commander in chief. Non parliamo poi dei rapporti con Israele e con l’Autorità palestinese, o delle relazioni martoriate con l’Egitto, con le capriole degli esperti del Dipartimento di stato sui Fratelli musulmani, le trattative opache con l’Iran e la conseguente rincorsa dei sauditi.
E che cosa vogliamo dire dell’Europa? Da un lato sono bloccate tutte le trattative per la libertà di commercio transatlantica. Le relazioni con la Germania sono al punto più basso da molto tempo in qua. Poi le sanzioni a Putin, necessarie ma tardive e frutto di una non-politica e di un non-riconoscimento della realtà russa, si rivoltano contro la ripresa mondiale. E in casa europea con l’Ucraina è tornata la guerra guerreggiata, con sconfinamenti, annessioni, insicurezza dei cieli, roba dell’Ottocento o del ferrigno Novecento.
Il segreto di questo spicinìo, di questo sconquasso, di questa rovina è uno solo, e si identifica con le ragioni del successo simbolico di Obama come profeta mondiale della speranza, come retore capace di tutto nella sollecitazione delle emozioni edificanti: il distacco dalla realtà politica, che ha i suoi tempi, le sue diaboliche necessità, la sua logica. Se non la rispetti, poi ne paghi le conseguenze. E se sei il presidente degli Stati Uniti, è il mondo intero a pagarne le conseguenze.
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