Papa Francesco (Foto Ap)

Perché questo Papa è così timido con gli attacchi dell'islam

Carlo Panella

La chiesa continua a ignorare il legame tra i paciosi ulema del dialogo interreligioso e i mitra del Califfato.

Roma. Non stupisce la timidezza di Papa Francesco a fronte della sanguinaria marea montante del Califfato. E’ coerente con mezzo secolo e più di equivoci ed errori della chiesa, e delle chiese, nei confronti del mondo musulmano. Un fraintendimento radicale dal doppio volto, politico e teologico. E quel che più stupisce e pesa è di sicuro il secondo.
Lungo 50 anni di dialogo interreligioso infatti, la chiesa ha deciso di ignorare il profondo legame teologico che unisce i paciosi ulema dei suoi tanti convivi interconfessionali – in primis i sauditi – ai feroci miliziani dello Stato islamico di oggi. Legame che ha un doppio riferimento, non a caso mai citato: Mithaq e Corano increato.

 

Il primo, il “patto primordiale”, ha un effetto devastante perché stabilisce che l’islam è la religione naturale dell’uomo. Nessun mistero della Fede, nessun libero arbitrio, nessuna “scelta”. Si nasce musulmani e monoteisti, ma genitori cristiani ed ebrei fanno deviare dalla Fede connaturata. Il Corano predica il monoteismo non soltanto come tradizione primordiale dell’umanità, ma come radicato nella pre-eternità dell’uomo per volontà indiscutibile di Allah. Prima ancora della sua nascita, l’uomo è già monoteista. Nasce musulmano per natura, affermano la tradizione e i teologi. Di conseguenza, l’infedeltà al monoteismo è vista come uno spergiuro. E idolatri e da combattere con la spada sono i cultori dei santi cristiani, dei 12 imam sciiti e del fuoco zoroastriano degli yazidi.

 

Questo è il legame profondo che unisce il jihadista dello Stato islamico, che crocifigge cristiani, a Hassan al Turabi, il teologo sudanese che fece impiccare Mohammed Taha per apostasia e che fu portato dalla Curia a stringere la mano di Papa Wojtyla. Un legame che unifica la teologia del Califfato osceno dello Stato islamico a quella del confinante regno saudita e wahabita, dove vieni arrestato se solo porti al collo un crocefisso ed è proibita ogni manifestazione di fede cristiana.

 

Ma non basta: se si intreccia il “patto primordiale” con il secondo dogma fondante del Corano increato è ben arduo convincere il miliziano del Califfato a scegliere più dolci maniere. Questo secondo dogma – di cui mai né Hans Küng, né il cardinale Martini, né i teologi di Sant’Egidio si sono occupati o preoccupati, non a caso – comporta la proibizione assoluta a qualsiasi esegesi del Libro. Questo perché, essendo incarnazione, materializzazione eterna del Verbo (quasi fosse il Cristo) il Corano preesiste all’uomo e vivrà oltre la Fine del Tempo. Conseguenza ovvia: Ratisbona. Fede e ragione non possono contemperarsi perché la seconda non può commettere il peccato luciferino di interpretare il Verbo. Dunque se il Corano definisce gli ebrei “porci e scimmie”, così è. Se il Corano accusa ebrei e cristiani di “avere tradito il Libro e ucciso i Profeti”, così è e vanno puniti in eterno.
Questa rozza teologia, in spregio ad Averroè, è stata elaborata nel XIII secolo da Ibn Taymmyya, a chiusura autocastrante della civiltà islamica dei secoli precedenti, ed è oggi egemone in tutto il mondo sunnita, non solo in quello wahabita. Ma mai, mai, è stata affrontata, discussa, presa in considerazione dalla chiesa nelle sue devastanti, possibili ricadute e conseguenze.
I miliziani del Califfato si incaricano ora di spiegarla e dispiegarla al mondo, in quella che concepiscono come una dovuta lotta all’idolatria di cristiani, sciiti e yazidi.

 

Ma la chiesa – e lo stesso Pontefice – si trovano oggi disarmati davanti alle sciabole del Califfato anche a causa di una spessa tradizione di opportunismo politico che emerse con dolorosa evidenza alla luce quando la Curia arrivò a dissociarsi di fatto e ipocritamente dal suo stesso Pontefice dopo Ratisbona. Le ragioni di questo opportunismo curiale erano e sono tante: la protezione delle minoranze cristiane sino al 2011 in qualche modo cooptate dai regimi; in alcuni casi, come in quello siriano, la piena complicità dei vertici della gerarchia locale e dei dirigenti della comunità cristiana con i regimi, anche quelli più feroci (si ricordi il ruolo di Tareq Aziz, il Beria cristiano di Saddam Hussein); il solido legame nelle votazioni sui temi etici nelle istanze internazionali e infine l’inerziale consuetudine. Su tutto, dopo la posizione di Giovanni XXIII sulla guerra d’Algeria, un’alea di pacato anti imperialismo che intravedeva nell’identità islamica una forza vitale di giustizia nel mondo. Infine, ma non per ultimo, il retaggio di un anti giudaismo, difficile da superare, che sullo “scandalo” dell’esistenza dello stato degli ebrei riemergeva e riemerge.

 

Quando il Vaticano si schiera

 

Francesco Cossiga ricordava un dispaccio del 1947 di Roncalli, nunzio a Istanbul, in prossimità del cruciale voto all’Onu sulla nascita di Israele, in cui il futuro “Papa buono” considerava “non opportuno” che l’ebraismo potesse contare sul baricentro di uno stato. Pregiudizio e diffidenza che hanno segnato la dura scelta del Vaticano di non associarsi a tutte le nazioni del mondo e di schierarsi con quelle islamiche, non riconoscendo Israele come stato con cui stringere relazioni diplomatiche sino al 30 dicembre 1993, dopo gli accordi di Oslo. Di fatto, la chiesa ha subordinato alle sciagurate scelte di Yasser Arafat i tempi del suo riconoscimento formale dello stato di Israele.

 

Di fatto, la chiesa, non conosce l’islam, quello vero, praticato, di oggi. Non vuole conoscerlo perché sarebbe costretta a decisioni devastanti. In primis, quella della “guerra giusta”. Un dramma che priva l’occidente di una guida indispensabile. E lascia i cristiani d’oriente nudi e indifesi di fronte al martirio.