Ignatieff e il paradosso del sistema americano
Nel 2005 l’intellettuale canadese Michael Ignatieff ha scritto un saggio sul New York Times intitolato: “Chi sono gli americani per pensare che spetti a loro la diffusione della libertà?”.
New York. Nel 2005 l’intellettuale canadese Michael Ignatieff ha scritto un saggio sul New York Times intitolato: “Chi sono gli americani per pensare che spetti a loro la diffusione della libertà?”. Era la riflessione di un intellettuale liberal sul destino dell’America, la sua vocazione biblica di “città sulla collina”, esposta quando l’America era governata da un presidente “che non credeva che la libertà fosse un dono dell’America alle altre nazioni, ma un dono di Dio all’umanità”. Come allora diversi suoi compagni di ventura, Ignatieff era convinto che per giustificare l’invasione dell’Iraq bastassero le indicibili crudeltà commesse da un satrapo baathista troppo a lungo tollerato dall’occidente nei confronti di sciiti e curdi. Non servivano le provette, l’uranio yellowcake né la pistola fumante delle armi di distruzione di massa per autorizzare un intervento dell’America e dell’occidente contro un nemico dell’umanità. Il professore di Harvard era un membro fondatore del club dei “guerrafondai umanitari”, come li chiama il suo grande amico Leon Wieseltier, orgogliosamente includendosi nel gruppo. Criticava persino Tony Blair, inflessibile coautore della battaglia occidentale, perché le sue argomentazioni in favore del conflitto non erano della stessa densità morale di quelle di Bush; per il premier britannico “l’Iraq è soprattutto un problema di gestione del caos”, mentre per lui il problema era l’intimo rapporto fra la pretesa universale della libertà che l’America religiosamente incarna e la sua attuazione nelle circostanze storiche. Il termine “esportazione della democrazia” evocava in modo imperfetto e riduttivo l’ideale morale e pure venato di un certo millenarismo liberal che ardeva sotto la superficie degli eventi.
Di molte scelte di quel periodo Ignatieff si è poi pentito ma era, ed è ancora, interessato alla prospettiva di Thomas Jefferson, secondo cui il progetto americano si sarebbe inevitabilmente diffuso in tutto il mondo, “in alcune parti prima, in altre più tardi, ma alla fine a tutto il mondo”, perché l’umanità intera ha impresse nel cuore certe verità autoevidenti che portano, dopo un percorso che può essere ed è anche molto accidentato, allo stabilirsi di un ordine democratico e liberale. Jefferson diceva queste cose mentre ordinava ai suoi schiavi di riordinare la villa di Monticello senza che nemmeno per un istante lo sfiorasse il dubbio che anche loro fossero coinvolti in quella faccenda degli uomini creati uguali e titolari di certi diritti inalienabili che lui e gli altri padri fondatori avevano fissato nella dichiarazione d’indipendenza. Era un accidente da superare nel progressivo svolgersi della storia. Ce ne sarebbero stati altri di accidenti – i totalitarismi, il fanatismo islamista, scontri di civiltà a più non posso e chissà cosa ancora – ma il modello liberal-democratico che l’America incarnava avrebbe trionfato. Francis Fukuyama ha racchiuso tutto questo nella stranota idea della “fine della storia”.
Qualcosa però è andato fuori dal canovaccio. Può essere che in una prospettiva neohegeliana le agitazioni odierne, dall’Ucraina all’Iraq alla Cina, siano soltano manifestazioni di un’antitesi, ma sta di fatto che si nota una spiccata tendenza verso quelle che Larry Summers chiama forme di “mercantilismo autoritario”, ovvero concrezioni di potere non democratico o parzialmente democratico che però funzionano. Del resto, era implicita nella mentalità da fine della storia l’idea che il modello liberale e democratico fosse giusto nei princìpi ed efficace nella realtà. Oppure che il capitalismo fosse un’infiorescenza inseparabile dal ramo della libertà e dei diritti civili. Russia e Cina dimostrano che il capitalismo galoppa anche senza diritti. Nel discorso alla Ditchley Foundation che qui pubblichiamo integralmente, Ignatieff riflette sui limiti di questa concezione e analizza l’espansione di varie forme di autoritarismo efficiente che si nutrono dell’assenza di un’ideologia universale. La Russia di Putin coltiva certamente un’identità nazionale forte, ma non si sente addosso il compito di portare i suoi princìpi a tutti i popoli.
Non c’è traccia dell’ambizione universale di cui predicava Jefferson, pur razzolando male, si compete nel mero ambito della funzionalità. Uno dei paradossi sollevato da Ignatieff è che all’aumentare dell’influenza di queste forme di autoritarsimo funzionale corrisponde una diminuzione dell’efficienza del sistema politico americano. Il politburo di Pechino è un residuo illiberale del totalitarismo che prende decisioni dotate di conseguenze reali; il Congresso di Washington è lo sterile regno dell’indecisione e della paralisi, una specie di assemblea generale dell’Onu permanente. Questa tensione è la sfida odierna di un intellettuale che ha fatto dei diritti umani e della libertà il nucleo fondamentale del suo pensiero. Ignatieff è un riccio, proprio come il suo maestro Isaiah Berlin.
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