Il reparto di natalità in un ospedale (Foto Lapresse)

Numeri e bambini

Roberto Volpi

Tutte le ripartizioni territoriali riportano il segno meno sul tabellino della natalità. Il calo demografico è l’emergenza economica più grave da affrontare in Italia.

Primi due mesi del 2014: nati 82.942, pari a -3.572 e -4,1 per cento rispetto agli 86.514 nati di gennaio-febbraio del 2013. La contrazione è stata del 5,1 per cento a gennaio e del 3,8 per cento a febbraio. Il calo riguarda dunque entrambi i mesi. Siccome il 2013 è stato l’anno delle minori nascite di sempre in Italia – poco più di 514 mila –  il 2014 minaccia seriamente di ritoccare il primato, e forse in misura considerevole. A questo ritmo scenderemmo ben al di sotto della quota da moribondi di mezzo milione di nascite annue in un paese di 60 milioni e passa di abitanti.

 

Tutte le ripartizioni territoriali riportano il segno meno sul tabellino della natalità, a dimostrazione della attendibilità della sua ulteriore discesa. Con le punte massime del  nord-est (-6,8 per cento) e del centro (-6,0 per cento) e quelle minime delle Isole (-1,3 per cento) e del nord-ovest (-2,6 per cento). E’, a suo modo, un bollettino di guerra che fa impallidire ogni indicatore economico – anche il più malmesso (e non lo sono così come ce li raccontano). Se ci sarà un minimo di effetto Renzi lo vedremo tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Già, perché è fuori discussione che sull’ormai patologico declino di natalità (numero nati annui per mille abitanti) e fecondità (numero medio di figli per donna) in Italia influiscono tre fattori. Il primo, tendenziale e culturale: famiglia e figli non esercitano più l’appeal che esercitavano un tempo, né gli assetti economico-produttivi di società come la nostra ne richiedono più come una volta – ma neppure, sia chiaro, in così scarse quantità/qualità come oggi. E’ il fattore più potente e agisce da quattro decenni tondi. S’è messo in moto quasi dopo il 1974, anno della vittoria del “no” al referendum sulla richiesta di abrogazione della legislazione sul divorzio, è proseguito a rotta di collo nei vent’anni successivi per poi acquietarsi soltanto nella seconda metà degli anni Novanta –  ma assestandosi ai suoi livelli più bassi. Il secondo fattore, conseguente al primo, è il calo tendenziale delle donne in età feconda e, segnatamente, di quelle che ai tempi nostri fanno più figli, vale a dire le donne della fascia tra i 30 e i 39 anni, che hanno surclassato alla grande quelle di 20-29 anni. Siccome entrano meno donne nel “gioco” dei figli, non c’è, per questo solo fattore, da aspettarsi alcuna ripresa – semmai il contrario. Il terzo, infine, è quello congiunturale. E dice che quando una crisi economica si trascina nella stagnazione per troppo tempo fa male anche agli assetti famigliari, a cominciare da quelli che riguardano il numero dei figli. Il minimo di fecondità dal quale veniamo, e che minaccia di proseguire, è quello che sta tra gli anni 2011 e 2013, che è anche il punto di minimo, sostanzialmente, degli indicatori economici.

 

Se ci sarà un effetto Renzi (che pure, al momento, trova difficoltà a manifestarsi proprio in campo economico) lo vedremo, dicevo, nell’ultimissimo scorcio e meglio ancora nei primi mesi dell’anno prossimo. Allora capiremo se il peggio, demograficamente parlando, è passato o se dovremo ridurci allo stremo delle forze in questa materia che è la più cruciale di tutte, perché senza il suo carburante non c’è motore che possa davvero ripartire e durare. Ma è bene considerare, ammesso e non concesso che almeno si riesca, per allora, a frenare la discesa verso il fondo, che anche ove così succedesse l’Italia rimarrebbe pur sempre un’ammalata gravissima. Con un tasso di fecondità delle residenti italiane ben sotto la soglia di 1,3 figli in media per donna siamo destinati, a gioco lungo, a non approdare da nessuna parte. Lo si sappia. E se proprio uno spread  vogliamo considerarlo, bene, si cominci a pensare a questo, allora.

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