E' la tecnologia, stupidi!
Non c’è nulla di meglio di una recessione per gettare gli economisti in uno stato di sconforto. Ecco quello che i gufi dell’economia globale dimenticano di considerare.
Non c’è nulla di meglio di una recessione per gettare gli economisti in uno stato di sconforto. Così come è accaduto nella seconda metà degli anni Trenta – quando c’era il timore di una cosiddetta stagnazione secolare, o di assenza di crescita dovuta alla penuria di opportunità d’investimento – oggi molti dei miei colleghi sembrano ritenere che “i giorni tristi sono di nuovo qui con noi”. La crescita accumulata per buona parte del Ventesimo secolo – ci dicono – era effimera. I nostri figli non saranno più ricchi di quanto lo siamo noi. L’ingresso nel mercato del lavoro di milioni di donne e l’incredibile aumento di laureati che guidarono la crescita dopo il 1945 furono fattori positivi ma irripetibili. Ci dovremo abituare alla bassa crescita.
Cosa c’è di errato in queste tesi? La risposta è racchiusa in una parola sola: “Tecnologia”. E’ responsabilità degli storici dell’economia ricordare al mondo in quale situazione ci trovavamo prima del 1800. La crescita era talmente lenta da essere impercettibile, e la grande maggioranza della popolazione era così povera che un’annata di raccolti andati male poteva causare la morte di milioni di persone. Quasi la metà dei bambini moriva prima di raggiungere l’età di cinque anni, e quelli che arrivavano all’età adulta erano spesso rachitici, malati e analfabeti. E’ il progresso tecnologico ad aver cambiato quel mondo.
A cominciare dalla fine del Diciottesimo secolo, le innovazioni e gli avanzamenti in quelli che erano chiamati “arti e mestieri utili” iniziarono a migliorare lo standard di vita, prima in Inghilterra, poi nel resto d’Europa e alla fine in buona parte del mondo.
Come è successo? In breve: la scienza è progredita. Una ragione per cui la scienza è progredita così rapidamente è che la tecnologia ha fornito mezzi e strumenti che hanno consentito ai “filosofi naturali” – come erano chiamati allora – di studiare il mondo fisico. Un esempio è il barometro. Inventato nel 1643 da un allievo di Galileo Galilei, Evangelista Torricelli, ha mostrato l’esistenza della pressione atmosferica. Questa scoperta scientifica ha portato allo sviluppo dei primi motori a vapore (noti in origine come motori atmosferici). Nel 1800, un altro italiano, Alessandro Volta, inventò la “pila”, cioè la prima batteria. Servì essenzialmente come strumento per la ricerca chimica, consentendo agli esperti della materia di mappare il mondo appena scoperto degli elementi chimici e dei composti che diedero il via libera allo sviluppo delle industrie chimiche del Diciannovesimo secolo. In questo modo la tecnologia si autoalimentava: un’invenzione in un settore stimolava il progresso in un altro settore. La teoria dei germi sulle malattie, e la rivoluzione della tecnologia medica che ne discese, forse non ci sarebbero mai state senza i miglioramenti nella costruzione dei microscopi.
Rispetto agli strumenti di cui disponiamo oggi per condurre la ricerca scientifica, quelli di Galileo assomigliano a delle scuri fatte di pietra. Oggi abbiamo microscopi, telescopi e barometri molto migliori, e la codificazione digitale dell’informazione ha permeato ogni aspetto della scienza. Ha portato addirittura a reinventare il processo di invenzione. Parole come “It” (information technology) o “comunicazione” quasi non sono sufficienti a esprimere l’ampiezza del cambiamento. Enormi database in cui è possibile effettuare ricerche, simulazioni di chimica quantistica e analisi statistiche altamente complesse sono soltanto alcuni degli strumenti che l’èra digitale mette a disposizione della scienza.
Le conseguenze si vedono ovunque, dalla genetica molecolare alle nanoscienze, fino alla ricerca sulla poesia medievale. I computer quantici, sebbene sperimentali, promettono di aumentare questa capacità in modo esponenziale. Così, mentre la scienza esplora nuovi campi e risolve problemi finora nemmeno immaginabili, gli inventori, gli ingegneri e gli imprenditori aspettano dietro le quinte di progettare nuovi marchingegni e processi basati sulle scoperte che continueranno a migliorare le nostre vite.
Facendo congetture su quale forma avranno le nuove tecnologie, i robot e l’intelligenza artificiale rimangono imprescindibili, sono strumenti al contempo desiderati (a chi piace costruire dei letti?) e temuti in quanto potenziali “ladri” di posti di lavoro. Finora abbiamo visto solo una frazione di quel che è possibile nell’informazione e nella tecnologia della comunicazione ma i progressi più inaspettati potrebbero arrivare dagli ambiti meno affascinanti, come la scienza dei materiali.
I materiali sono il cuore della nostra produzione. I termini “età del Bronzo” ed “età del Ferro” testimoniano la loro importanza; la grande èra del progresso tecnologico tra il 1870 e il 1914 è dipesa totalmente dall’acciaio a basso costo e di sempre migliore fattura. Ma quello che sta accadendo oggi con i materiali va ben oltre quanto visto in passato, con nuove resine, ceramiche e solidi del tutto nuovi progettati in silicio (vale a dire, su un computer), sviluppati a livello nanotecnologico. Questi materiali, che la natura mai avrebbe sognato, offrono proprietà personalizzabili a seconda delle esigenze per durezza, resilienza, elasticità e così via.
Un esempio è il grafene, un foglio di carbonio molto sottile le cui molecole possono essere predisposte per renderlo sia il materiale più forte sia quello più flessibile sulla terra. Conduce l’elettricità e il calore meglio di qualsiasi materiale scoperto finora. E’ probabile che in futuro il grafene sostituirà il silicio nei transistor o nei pannelli solari, più altre applicazioni che non siamo in grado di immaginare.
L’ingegneria genetica è un’altra area fertile per nuove scoperte. Le piante saranno progettate per fissare i nitrati nel suolo o per assorbire più anidride carbonica dall’atmosfera, per potere adattarsi a temperature sempre più estreme o alle piogge. Questa sarà la nostra migliore difesa dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico e dagli altri effetti sgraditi delle precedenti tecniche agricole più rozze. Le “nanobombe” che penetrano fisicamente le membrane dei batteri saranno la prossima arma nella guerra infinita dell’umanità contro i microbi.
Le scoperte non sono all’orizzonte. Sono già qui. L’economia dovrà affrontare qualche folata di vento contrario ma il vento in poppa della tecnologia ha la forza più simile a quella di un tornado. Allacciate le cinture dunque. Però, se tutto va così bene, perché tutto sembra andare così male? Perché così tanti miei colleghi sono preda dello sconforto? Parte della questione deriva dal fatto che molti economisti sono addestrati a guardare le statistiche aggregate, come il prodotto interno lordo (pil) pro capite, o a misurare le cose con “la produttività dei fattori”. Questi indicatori sono stati costruiti per un’economia dell’acciaio e del grano, non per un’economia in cui l’informazione e i flussi di dati sono i settori più dinamici. Ciò non misura a dovere il contributo dell’innovazione all’economia. Molti nuovi beni e servizi sono costosi da progettare ma, una volta che funzionano, possono essere replicati a un costo irrisorio o pari a zero. Questo significa che tendono a fornire un piccolo contributo alla produzione anche se il loro impatto sul benessere dei consumatori è molto grande. La valutazione dell’economia basata sui dati aggregati, come il prodotto interno lordo (pil), diventerà sempre più fuorviante mano a mano che l’innovazione accelererà. Questi indici non sono stati costruiti per tenere conto di nuovi beni e servizi, nonostante gli sforzi eroici degli esperti dell’Ufficio nazionale di statistica.
Gli aggregati statistici non rilevano la maggiore parte delle cose interessanti. Ecco un esempio: se le automobili attrezzate per il telelavoro o quelle senza conducente dovessero ridurre della metà il tempo speso dagli americani per fare i pendolari, ciò non verrebbe rilevato nel conteggio del reddito nazionale ma renderebbe la vita di milioni di americani sostanzialmente migliore. La tecnologia non è nostra nemica. E’ la nostra più grande speranza. Se pensate che un rapido cambiamento tecnologico sia indesiderabile, allora provate la stagnazione secolare.
(Joel Mokyr è professore di Economia e Storia alla Northwestern University. L’articolo, che pubblichiamo per gentile concessione di MF/Milano Finanza, è apparso ieri sul Wall Street Journal. Traduzione di Alberto Brambilla e Marco Valerio Lo Prete)
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