Renzi alle prese con l'ineluttabile germanizzazione dell'euro
Non ci si deve fermare alle dichiarazioni o ai titoli dei giornali per capire cosa sta realmente accadendo lungo l’asse che unisce Roma, Francoforte e Berlino.
Non ci si deve fermare alle dichiarazioni o ai titoli dei giornali per capire cosa sta realmente accadendo lungo l’asse che unisce Roma, Francoforte e Berlino. Certo, le riforme italiane sempre rinviate e l’economia con l’unico pil dell’Eurozona incatenato allo zero per cento, sono aspetti importanti. Certo, lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi che è tornato ad allargarsi e che è ora più di 20 punti base stabilmente superiore a quello spagnolo, preoccupa. Certo, il pareggio di bilancio già slittato al 2016 e forse anche più in là, così come il deficit che rischia di superare nuovamente il 3 per cento del pil, destano molti timori. Tutto vero, ma dietro al confronto irrituale che negli ultimi giorni ha visto contrapporsi il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Banca centrale europea e al rischio di un commissariamento dell’Italia da parte della Troika, si nasconde anche un’altra verità: quella del nostro paese come l’ultimo baluardo non ancora germanizzato dell’Eurozona. L’ultima economia che non ha ancora capitolato al diktat tedesco, fatto di aiuti a fronte dell’adozione del modello economico, che Berlino vuole sia valido per tutta l’Eurozona. Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia – quest’ultima è quella che ha provato a opporre le resistenze maggiori ma senza troppi risultati concreti anche perché con la Turchia di Erdogan più forte che mai Atene ha bisogno di Berlino oggi più di prima – tutte in successione sono capitolate alla dottrina tedesca. Hanno ricevuto aiuti dal prestatore di ultima istanza dell’Eurozona, le riserve valutarie di Berlino, e hanno fatto le riforme richieste per allineare le loro economie al modello tedesco. Finanza pubblica non espansiva, rigida dottrina monetaria, rivalutazione della moneta, bassa inflazione, alta produttività e vocazione all’esportazione. Fuori dal progetto di germanizzazione resta solo l’Italia, perché la Francia è una storia a sé. Parigi serve a Berlino per rassicurare le cancellerie del resto del mondo che il Reich non è rinato con le stesse sembianze del secolo di Bismarck e con una moneta chiamata euro. Senza Parigi nella moneta unica, la Germania sarebbe immediatamente oggetto di attenzione da parte di Washington e di Mosca perché le guerre non si vincono per nulla.
Dunque, ora tocca a Roma. E tocca a Matteo Renzi, primo presidente del Consiglio politico nella effettiva possibilità di negoziare con Berlino e Francoforte, perché Mario Monti ed Enrico Letta erano senza un vero mandato e Silvio Berlusconi non era considerato alla fine del suo mandato una controparte negoziale dai tedeschi. Renzi, invece, ha ottenuto i voti ed è segretario del partito che governa, quindi può puntare i piedi, difendere la specificità degli interessi italiani che non possono, senza combattere, finire sotto lo schiacciasassi teutonico. L’economia italiana viene da un modello di sviluppo basato sulla bassa produttività, l’elevata inflazione – perché scarsamente liberalizzato e contendibile – l’utilizzo del bilancio pubblico come uno strumento di stimolo della domanda a prescindere dai vincoli di pareggio e la necessità di svalutare periodicamente la moneta per ridare competitività alle sue esportazioni. Nel modello tedesco solo una parte dell’economia italiana, quella da anni più esposta e integrata con la competizione globale, può farcela. Una prospettiva di breve termine davvero scomoda da gestire per qualunque capo di governo.
Ma cosa può concretamente fare Renzi? Con un ciclo economico meno avverso avrebbe avuto più carte in mano da giocare. Ma ora che anche il pil del suo primo anno di governo rischia di chiudere in negativo e il 2015 è “terra incognita”, il presidente del Consiglio può giocare solo all’attacco. Mostrare i muscoli, far vedere che non ha nulla da perdere, usare i toni forti degli ultimi giorni. Per ottenere cosa? I mercati danno per scontato che la flessibilità non sarà concessa da Berlino e che la trattativa riguarderà quelle che Mario Draghi ha definito “cessioni di sovranità dei singoli stati”. Quindi Renzi pare dover optare tra una ipotesi di germanizzazione morbida, riforme domestiche contro gli interessi della Cgil e di parte del suo Pd, accompagnate da una politica accomodante della Bce per contrastare la nostra deflazione, e una germanizzazione “normale”, che consiste in aiuti a fronte di un intervento della Troika. Ma alla germanizzazione Renzi comunque non pare poter sfuggire, perché a lui la storia ha affidato questo compito: traghettare l’Italia nell’Eurozona a trazione tedesca, difendendo però al meglio gli interessi italici. Una battaglia che deve condurre da solo, perché neppure Mario Draghi, bloccato in un ruolo da non italiano, può aiutarlo più di tanto.
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