Manifestazioni a Ferguson (foto LaPresse)

Grosso guaio a Ferguson

La rivolta “razziale” del Missouri e i fantasmi dell'America segregata

Guerriglia e giustizia sommaria. Un 18enne nero è stato ucciso da un poliziotto. La città insorge. Due versioni a confronto. Pregiudizi, protocolli, nervi.

New York. Di giorno per le strade di Ferguson, cittadina del Missouri a vasta maggioranza afroamericana, sfilano manifestanti disarmati e con le mani in alto, proprio come Michael Brown, il ragazzone di 18 anni che è stato ucciso sabato da un poliziotto in circostanze ancora da chiarire. Vogliono la verità su quei colpi di pistola che hanno atterrato “Big Mike” in pieno giorno, gridano che non c’è pace senza giustizia, alimentano il fiume di rabbia che scorre sui social, chiedono di conoscere il nome dell’agente che ha sparato. Soprattutto, vogliono sapere di che colore ha la pelle. La polizia ha detto che per evitare ritorsioni non diffonderà il nome dell’agente – che da allora è stato messo in aspettativa – ma gli hacker di Anonymous hanno annuciato via Twitter che presto saranno in grado di rivelarne l’identità. Lo stesso gruppo ha già diffuso indirizzo, numero di telefono personale e altri dati sensibili del capo della polizia della contea, Jon Belmar, e della sua famiglia.

 

A presidiare i manifestanti a distanza ravvicinata ci sono agenti con armi automatiche e maschere antigas, camionette blindate, squadre delle forze speciali vestite di nero, tiratori scelti appostati sui tetti, elicotteri di pattuglia. La tensione accumulata durante il giorno si scarica nella notte, trasformandosi in una convulsa guerriglia urbana fatta di vetrine distrutte, saccheggi, incendi, lacrimogeni, aggressioni, proiettili di gomma per dissuadere e disperdere, ma anche proiettili veri, di quelli che uccidono. Da martedì nel sobborgo di St. Louis che catalizza tutte le irrisolte nevrosi razziali d’America è stata imposta una “no-fly zone” dopo che un elicottero della polizia è stato bersagliato da colpi di arma da fuoco. Finora decine di persone sono state ferite e oltre cinquanta arrestate.

 

Nelle prime ore di ieri la polizia ha ricevuto una segnalazione: una banda di uomini armati coperti con maschere da sci si aggirava poco lontano dal luogo del delitto. Quando gli agenti sono intervenuti hanno trovato una ventina di persone armate di pistole. Uno l’ha puntata al volto del poliziotto più vicino, il quale ha aperto il fuoco, ferendo in modo grave il ragazzo. Una donna che era al volante della sua auto è stata invece raggiunta da un proiettile vagante alla testa, ma i medici dicono che non è a rischio della vita. Sono scene di violenta normalità americana che si ripetono ogni volta che “si riapre una vecchia ferita”, come dice il governatore del Missouri, Jay Nixon, la ferita del razzismo e dell’intolleranza che in questo angolo d’America si incrocia con la povertà, l’emarginazione sociale, il crimine e tutti gli altri sintomi di una segregazione mai del tutto debellata.

 

Ferguson conta 21 mila abitanti, il 70 per cento dei quali è afroamericano. Nell’indice che misura la segregazione delle città americane St. Louis è al nono posto. Ma Ferguson ha un sindaco bianco, gli organi di governo sono bianchi, la maggioranza dei poliziotti è bianca: negli anni Sessanta la middle class bianca ha abbandonato St. Louis in massa, ma in città è rimasto un establishment la cui sola presenza ha perpetuato meccanismi razziali che avrebbero dovuto rimanere chiusi in un’altra epoca. L’omicidio di Big Mike ha dato fuoco ad antiche polveri.

 

Lezioni dal caso di Trayvon Martin
Nella vicenda di Ferguson, come in altri casi analoghi, si rischia però di andare alle conclusioni troppo in fretta. Per la famiglia della vittima e i manifestanti a premere il grilletto è stato un pregiudizio razziale. Mike stava andando a casa della nonna con un amico, era disarmato e non ha fatto nulla di male: le parole “esecuzione” e “a sangue freddo” ricorrono negli slogan e nei cartelli delle proteste. Secondo la polizia,  il ragazzo ha attaccato briga con la pattuglia, tentando di rubare la pistola dalla fondina di un agente; c’è stata una colluttazione, uno sparo. Un altro sparo. Legittima difesa, dicono, ma le indagini sono ancora in corso e i nervi della comunità sono già saltati. I genitori del ragazzo che avrebbe dovuto iniziare a giorni il college hanno convocato il reverendo Al Sharpton per dare un respiro nazionale alla battaglia contro la discriminazione e hanno assunto l’avvocato Benjamin Crump, lo stesso che rappresentava la famiglia del 17enne Trayvon Martin, ucciso lo scorso anno in Florida da una guardia di nome George Zimmerman. Il caso di Martin abbonda di analogie con quello di Brown. Alla campagna colpevolista si era aggiunto anche il presidente Obama, che questa volta ha scelto parole più misurate, ricordandosi che al processo  per l’omicidio Martin, Zimmerman è stato assolto.

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