Il presidente della Bce Mario Draghi (Foto Lapresse)

Eurozona in frenata

Motore tedesco in panne. Draghi c'è, Renzi fa lo spavaldo

Marco Valerio Lo Prete

Crescita giù in Germania e Francia. Palazzo Chigi: non siamo l’eccezione, faremo da guida. Il lavorìo della Bce

Roma. “Le tre economie più grandi dell’Eurozona, che insieme rappresentano due terzi del prodotto interno lordo della regione (9,6 trilioni di euro), non sono riuscite a crescere”. La sintesi è quella del quotidiano finanziario Wall Street Journal, dopo i dati pubblicati ieri sul pil tedesco e francese nel secondo trimestre del 2014 che si sommano a quelli negativi arrivati la scorsa settimana dall’Italia. Ecco come appare il Vecchio continente visto dagli Stati Uniti che, tra mille difficoltà, lo scorso anno sono cresciuti comunque del 2,4 per cento a fronte dello 0,7 dell’Eurozona. Visti dalle cancellerie europee, invece, gli stessi dati hanno rianimato il dibattito politico e le schermaglie diplomatiche sul corso futuro della politica economica comune.

 

Il pil della Germania tra aprile e giugno è andato anche un po’ peggio delle aspettative, scendendo in terreno negativo per la prima volta dall’inizio del 2013, a meno 0,2 per cento rispetto a un primo trimestre particolarmente vivace. La scivolata di Berlino – che secondo le più recenti previsioni della Bundesbank dovrebbe comunque crescere dell’1,9 per cento a fine anno, vedere il tasso di disoccupazione calare al 5,1 per cento, mentre ieri lo Statistische Bundesamt registrava per il 2013 il primo calo del debito pubblico dal 1950 a oggi – è frutto di esportazioni in lieve flessione e di una frenata degli investimenti nel settore delle costruzioni. Questa volta sono stati i consumi domestici, solitamente troppo deboli agli occhi degli osservatori critici della Germania, a puntellare l’economia. Negli stessi tre mesi, la crescita francese rispetto al primo trimestre dell’anno è stata invece pari a zero. Parigi a fine anno crescerà di mezzo punto percentuale e non più di un punto, ha fatto sapere ieri il governo, mentre il tasso di disoccupazione salirà al 10,4 per cento secondo le stime Ue.

 

Coincidenza ha voluto che sempre ieri, nel giorno della battuta d’arresto per la locomotiva del continente, la Banca centrale europea pubblicasse il suo Bollettino mensile. E’ stata l’occasione, per il presidente Mario Draghi, per rassicurare i mercati: il sostegno della politica monetaria non mancherà. Allo stesso tempo però si rafforzano le voci di quanti affermano che la Bce è già oggi troppo timida: in fondo, è il ragionamento dei critici, proprio Francoforte ha ridotto la stima di crescita per l’Eurozona per il 2014, dall’1,1 all’1 per cento, e inoltre l’inflazione è ancora più vicina a zero che al 2 per cento previsto dallo statuto. Dall’Eurotower replicano descrivendo una “intensificazione” dei “lavori preparatori per acquisti definitivi nel mercato delle attività cartolarizzate (Abs), così da migliorare il funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria”, in ottemperanza alle scelte espansive annunciate a giugno. Il retropensiero che tutto ciò possa non bastare all’Eurozona, però, rimane; così la Bce ha comunicato pure che “il Consiglio direttivo è unanime nel suo impegno a ricorrere anche a strumenti non convenzionali nel quadro del proprio mandato qualora si rendesse ancora necessario affrontare rischi connessi con un periodo di bassa inflazione eccessivamente prolungato”.

 

Rassicurazione che a Parigi non basta. Ieri il ministro delle Finanze del governo socialista francese, Michel Sapin, ha annunciato che la flessione del pil comporterà uno sforamento del deficit concordato con Bruxelles a fine anno: supererà il 4 per cento, invece che fermarsi al 3,8. Già lo scorso 3 agosto, in occasione delle solenni commemorazioni per i 100 anni dalla Prima guerra mondiale, il presidente della Repubblica François Hollande aveva chiesto alla Bce e a Berlino di fare di più per la crescita del continente, vedendosi rispondere picche dal portavoce della cancelliera Angela Merkel. La reazione del presidente del Consiglio italiano di fronte all’eurofrenata è stata di un altro tipo ancora: “Da oggi è più chiaro che quello della situazione economica è un problema che riguarda l’intera Eurozona”. Mal comune mezzo gaudio? Renzi nega, precisando che “ciò non significa che l’Italia stia messa meglio”. Tuttavia, dopo che l’Istat la settimana scorsa ha certificato la terza recessione per il nostro paese dal 2009 a oggi (meno 0,2 nel secondo trimestre, dopo il meno 0,1 del primo, mentre si allontana l’obiettivo di una crescita dello 0,8 a fine anno), e dopo la lunga serie di critiche arrivate da osservatori nazionali e internazionali, è evidente che a Palazzo Chigi qualcuno si senta sollevato per il fatto di non apparire come l’eccezione negativa. Basterà? “Ora si riscopre con evidenza cosa vuol dire ‘interdipendenza’, politica o economica che sia. Nessuno nell’Eurozona può pensare di isolarsi dalle sorti altrui”, dice al Foglio Enzo Moavero Milanesi, già ministro per gli Affari europei dei governi Monti e Letta. 

 

Moavero Milanesi continua a seguire da vicino le vicende europee come consigliere (a titolo gratuito) del commissario Michel Barnier per il Mercato interno. Ai dati macroeconomici resi noti in questi giorni e che certificano un rallentamento perfino della Germania, preferisce applicare le categorie della storia, della politica e della diplomazia: “L’economia tedesca, cioè quella di un paese che molte riforme le ha fatte per tempo e prima di altri, entra in sofferenza se gli altri stati membri sono in affanno costante – dice al Foglio – L’interdipendenza economica è ovviamente anche politica. Una via esclusivamente ‘nazionale’ alla ripresa non esiste”. Secondo l’ex ministro, nell’opinione pubblica e nell’establishment tedeschi, come confermato dall’andamento di alcuni indici di fiducia quali lo Zew, “la sensazione psicologica di essere legati agli altri stati, nella buona e nella cattiva sorte, si sta rafforzando”. Una presa di coscienza troppo tardiva, direbbe qualcuno. Moavero Milanesi è più clemente con le decisioni europee, mette in fila “tre fenomeni di lungo periodo” che hanno investito il continente: in vent’anni, la rapida e improvvisa fine delle divisioni della Guerra fredda, la globalizzione che prende un’incredibile velocità nei paesi che erano considerati emergenti, poi la crisi devastante trasmessa dagli Stati Uniti e che coglie di sorpresa un’Unione europea ancora deficitaria nel suo “assetto istituzionale”. A fronte di tutto ciò, non ci si poteva aspettare che i leader politici avessero a disposizione da subito “un manuale di istruzioni” da seguire. Perciò Moavero Milanesi, che da ministro degli Affari europei ha partecipato da protagonista ad alcuni negoziati clou della nuova governance economica – dal negoziato del Fiscal compact al Patto per la crescita (“ispirato nel 2012 da un’iniziativa comune di Italia, Regno Unito e Olanda”), passando  per l’accordo politico che ha reso possibile le iniziative non convenzionali (Outright monetary transactions in primis) di Draghi a tutela dell’Eurozona – preferisce sottolineare “la straordinaria tenuta delle istituzioni europee e la preservata integrità del sistema della moneta unica”.

 

Dopodiché si dice d’accordo con Draghi: “Il fatto che l’Eurozona si dimostri ancora oggi più munita sul fronte della supervisione dei conti pubblici piuttosto che su quello delle riforme strutturali costituisce un forte squilibrio”. L’accordo raggiunto nel 2013 sul bilancio pluriennale dell’Unione 2014-2020, per esempio, ebbe questo limite: prevalse l’idea che il bilancio andava contenuto, come i bilanci nazionali, e non ci fu sufficiente “creatività” per accentuare il suo effetto leva al fine di robusti investimenti comuni. Perciò l’Italia farà bene a sostenere il nuovo presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, nell’impegno preso per 300 miliardi di investimenti aggiuntivi nei prossimi tre anni. Dell’Unione economica e monetaria, o Uem, Moavero Milanesi ripete che si dovrebbe rafforzare la “e”, cioè l’aspetto economico. Vuol dire cedere sovranità nazionale anche in scelte che riguardano mercato del lavoro, pensioni o altro? “Parlare adesso di cessione di sovranità è lapalissiano. Tutta la storia della Comunità e dell’Unione europea è fatta di cessioni di sovranità”. Renzi allora può rivendicare autonomia di scelta, purché il senso sia quello di voler procedere comunque alle riforme, a prescindere dall’esservi costretto “dalle difficoltà”. Il presidente del Consiglio rilancia, ieri ha detto che “ora l’Italia è nelle condizioni di poter essere la guida dell’Europa, di trascinare l’Eurozona fuori dalla crisi”.

 

L’alternativa positiva alla Troika

 

Effettivamente, secondo Moavero, un’alternativa “positiva” alla Troika c’è: “Un paese come il nostro si può impegnare autonomamente a pianificare riforme attese da tanti anni, anche ispirandosi alle ‘raccomandazioni’ del Consiglio europeo. Dopodiché sarebbe nel suo interesse esigere un coordinamento con gli altri stati che prendano simili impegni vincolanti”, dice Moavero. A quel punto, sotto la vigilanza della Commissione, si può pensare a forme di “incentivo” per gli stati membri, come proposto in nuce nei “contractual arrangements” abbozzati nel 2013, che poi hanno cambiato nome in “partnership per la crescita” e sui quali si era concordato di prendere una decisione al vertice Ue del prossimo ottobre, sotto presidenza italiana. Difficile che per “incentivo” si possa intendere una deroga al tetto del 3 per cento al deficit, più plausibile ottenere un rinvio o un rallentamento del ritmo di riduzione del debito pubblico previsto, a partire dal 2016, dai regolamenti dell’ottobre 2011: “Si tratterebbe di scelte autonome di modernizzazione del paese che avrebbero un riflesso anche altrove in Europa. Bruxelles per esempio da tempo chiede a Berlino di rilanciare i consumi domestici e di liberalizzare il suo settore dei servizi per aprirlo ad altri investitori europei. Rimanendo in buona misura inascoltata”. Applicare “accordi volontari e coordinati” sarebbe un modo per “procedere in autonomia su riforme indispensabili, benché ‘scomode’ in Italia” e stimolare anche la Germania “verso scelte ottimali per sé e per gli altri partner”, conclude Moavero Milanesi. Anche i dati di ieri sul pil spingono in questa direzione.