Cinefili ingenui come servette anni Cinquanta, e fuori piove a dirotto

Mariarosa Mancuso
Piove a dirotto, i grotti ticinesi rischiano la chiusura: son posti che, quando ancora l'anticiclone delle Azzorre faceva il suo dovere, si frequentavano la sera muniti di maglione. Minestrone, polenta o risotto aiutavano a scaldarsi, il vino era servito nel boccalino (bisogna esserci nati, per bere

Piove a dirotto, i grotti ticinesi rischiano la chiusura: son posti che, quando ancora l’anticiclone delle Azzorre faceva il suo dovere, si frequentavano la sera muniti di maglione. Minestrone, polenta o risotto aiutavano a scaldarsi, il vino era servito nel boccalino (bisogna esserci nati, per bere senza sbrodolarsi). Da qui il titolo apparso ieri mattina sul giornale gratuito 20 Minuti, in ottima posizione dopo il popolare Blick nella classifica dei quotidiani più letti della Svizzera. Un capolavoro di italiano regionale e figure retoriche che si accapigliano: “Il diluvio sui boccalini toglie fiato ai grotti”. Sappiamo però, dal Corriere del Ticino, che scomparso un turista ne subentra un altro. Latitano i tedeschi in cerca di sole, arrivano gli arabi che apprezzano “temporali e grandine, così inusuali da loro”.

 

Il cinefilo del tempo non si cura. Mica viene al festival per divertirsi. Viene a Locarno per constatare lo stato dell’arte cinematografica. Pronto a uscire dalla sala se il film non è abbastanza punitivo. Sport prediletto dai cinefili della vecchia guardia, che incanutisce ma non si arrende. E dai cinefili della nuova guardia, copia conforme della precedente per gergo ostico e spirito carbonaro. “E’ tipo di film che ci fa vergognare”, abbiamo sentito dire da un giornalista zurighese a proposito di “Schweizer Helden” (“Eroi svizzeri”) proiettato in Piazza Grande e diretto da Peter Luisi. La storia di una casalinga, abbandonata a Natale dal marito e dalle amiche, che mette in scena il “Guglielmo Tell” di Friedrich Schiller con un gruppo di richiedenti asilo politico.

 

Non un’idea particolarmente originale: Shakespeare in carcere lo hanno fatto anche i fratelli Taviani in “Giulio Cesare”, premiato con l’Orso d’oro a Berlino. Ma lì c’era l’impegno. Qui c’era solo una sceneggiatura ben scritta e un massiccio Guglielmo Tell nero con i capelli rasta (oltre alla balestra d’ordinanza per scoccare la freccia centrando la mela sulla testa del piccino). Applaudiva il pubblico pagante, dal fondo della piazza che nelle sere di pienone ospita ottomila spettatori. Nelle prime file, si avvertiva il disprezzo per un film “che vuole piacere, buono per un sabato sera in tv” (lo stesso giornalista zurighese, subito dopo aver celebrato Lauren Bacall, come se i film di Hollywood fossero stati girati ai tempi loro con l’intenzione di dispiacere).

 

Il Festival di Cannes ha la forza del mercato, per stemperare gli entusiasmi di chi cerca i film a rischio di sbadiglio già negli anni Settanta. La Mostra di Venezia campa in gran parte di rendita sul glamour passato. Il Festival di Locarno, al secondo anno diretto da Carlo Chatrian, è il sogno realizzato dei cinefili. Sceglie per il concorso pellicole punitive come “Cavalo Dinheiro” di Pedro Costa o “Alive” di Park Jung-bum: miserabili portoghesi, rispettivamente coreani, senza uno straccio di trama (solo il compiacimento per certe immagini squisitamente composte e insistite, la parola pornografia casca a proposito). Se poi il film arriva dalle Filippine e dura 338 minuti come “Mula sa kung ano ang noon” – titolo internazionale: “From What Is Before”, il regista si chiama Lav Diaz, nessuno avrà mai il coraggio di farlo uscire in sala e non si chiamano “strettoie della distribuzione”, si chiama buon senso – subito sentiamo odor di Pardo d’oro.

 

Per non attaccare briga più del dovuto – i dibattiti si tengono nei localini alternativi dove non c’è servizio al tavolo e chiedono cinque euro di cauzione per le posate – offre rifugio la retrospettiva dedicata alla casa di produzione Titanus. Ma anche lì non c’è pace. Sullo schermo passa “L’angelo bianco” di Raffaello Matarazzo, con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson: una “donna che visse due volte” con suore, avventuriere, figli di nessuno, la cattiva del carcere femminile. Capita di farsi una risata, quando il pedale del melodramma viene spinto al massimo. Il cinefilo della poltrona accanto – che dopo tanto studio ha ancora l’ingenuità di una servetta anni Cinquanta – protesta e zittisce i disturbatori.

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