Toccare i diritti acquisiti si può. Perché non partire dalla Pa?
Se la politica non riforma l’economia, l’economia riforma se stessa come può. La deflazione è una nuova tappa della crisi iniziata nel 2008, fenomeno di aggiustamento naturale del livello dei prezzi, conseguenza della scarsa competitività del sistema produttivo e del calo della domanda interna.
Se la politica non riforma l’economia, l’economia riforma se stessa come può. La deflazione è una nuova tappa (quasi da manuale) della lunga crisi italiana iniziata nel 2008, un fenomeno di aggiustamento naturale del livello dei prezzi, conseguenza inevitabile della scarsa competitività del sistema produttivo e del calo della domanda interna. Non avendo l’Italia una moneta nazionale, l’aggiustamento non può avvenire con una svalutazione (che solitamente è accompagnata da inflazione): si determina invece il calo dei prezzi di beni e servizi.
Non è una buona notizia, e d’altronde non lo sarebbe nemmeno una svalutazione o l’uscita dall’euro, in verità: come tutti gli aggiustamenti di un’economia claudicante, la deflazione miete molte vittime. Si abbatte il reddito delle imprese e con esso il costo del lavoro, calano gli stipendi e aumenta la disoccupazione, con effetti ulteriormente nefasti sulla domanda. E’ un circolo vizioso, i cui beneficiari di breve periodo sono i percettori di reddito fisso che si avvantaggiano dal calo dei prezzi a cui comprano.
Ovviamente non esistono redditi totalmente fissi, se è vero che la deflazione aumenta i rischi di qualsiasi azienda e di qualsiasi rapporto di lavoro, per tutelato che sia. Ma senza dubbio, al tempo della deflazione, c’è chi può dormire sonni più tranquilli di altri: i dipendenti pubblici.
E dunque, in un momento in cui perfino alcuni esponenti di governo lasciano intendere di essere disposti a mettere mano ai cosiddetti “diritti acquisiti”, è così eterodosso pensare allora che una misura equitativa sarebbe un piccolo taglio medio di tutte le retribuzioni pubbliche – lo 0,5 per cento, ad esempio – per destinare queste risorse pubbliche a investimenti in conto capitale che spingano innovazione, competitività e buona occupazione privata? Mezzo punto percentuale di retribuzioni pubbliche sono poco più di 800 milioni di euro annui, soldi con cui in 4-5 anni costruiremmo banda larga e ammoderneremmo scuole, strade, porti e aeroporti. Sarebbe una piccola grande rivoluzione.
Dal 2001 al 2011, le retribuzioni pubbliche sono aumentate molto più che nel privato (vedi dati Istat e Aran), senza peraltro alcun particolare miglioramento di produttività. Poi si sono fermate, come tutte le altre. Dal 2007 al 2011 il personale pubblico è diminuito dell’1,4 per cento (da 3,43 milioni di unità a 3,28), ma la retribuzione individuale media dei dipendenti a tempo indeterminato è cresciuta del 10 per cento: il taglio è avvenuto con i pensionamenti e la riduzione dei precari, mentre troppi dipendenti e dirigenti hanno goduto della malapratica delle “progressioni orizzontali”. C’è allora margine per un piccolo “sacrificio” da parte dei più garantiti tra i garantiti, i titolari di quei “diritti acquisiti” che anche il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, vuol mettere in discussione, a vantaggio dell’intera collettività e del futuro dell’economia italiana.
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