Il jihadista John e il reporter Jim
Il Califfato ha in mano un numero “elevato” ma non quantificabile di ostaggi occidentali. Le operazioni americane in Iraq si stanno per espandere ma gli analisti avvertono: battere lo Stato islamico è assai dura.
Roma. Una fonte del governo a Washington sentita dalla rete Abc dice che l’Amministrazione aveva saputo in anticipo che lo Stato islamico minacciava di uccidere giornalisti americani come rappresaglia – e come propaganda – contro la campagna aerea cominciata l’8 agosto nell’Iraq del nord. Alcuni esperti, per esempio l’analista inglese di stanza in Qatar Charles Lister, sostengono che il Califfato ha in mano un numero elevato di ostaggi occidentali – un numero più alto di quanto creduto finora anche se non è specificato – e che li userà come arma per ricattare i governi che appoggiano le operazioni militari contro l’organizzazione. Questo potrebbe spiegare perché Twitter nell’ultima settimana ha chiuso decine di account che erano usati dallo Stato islamico per disseminare il suo materiale su internet (è un suggerimento di J. M. Berger, un consulente in antiterrorismo per il governo). La compagnia che gestisce il servizio potrebbe avere giocato d’anticipo per impedire la circolazione di video come quello diffuso martedì sera, “Risala ila Amrika”, messaggio all’America, in cui un jihadista che parla con forte accento di Londra decapita il reporter americano James Wright Foley, rapito in Siria nel novembre 2012.
I servizi segreti americani e inglesi stanno confrontando la voce del jihadista londinese con il database di voci registrate che hanno a disposizione: dalle intercettazioni fatte in Iraq ai video degli interrogatori nella prigione di massima sicurezza di Guantanamo. Da un anno e mezzo lo Stato islamico dispone di un battaglione di almeno cinquecento combattenti formato da volontari arrivati dalla Gran Bretagna (le unità tendono a essere raggruppate per lingua per facilitare le comunicazioni: i francesi con i francesi, i turchi con i turchi, i ceceni con i ceceni). L’uomo appare calmo, come se quella non fosse la prima volta che uccide un uomo con un coltello. Il video di Foley sta avendo un grande impatto sull’opinione pubblica occidentale, ma è da mesi che arrivano filmati con decapitazioni dalla Siria e dall’Iraq: quando due settimane fa il clan siriano degli Shaytat si è ribellato allo Stato islamico nella regione di Deir Ezzor, centinaia di suoi uomini (da 300 a 700 a seconda delle fonti) sono stati uccisi per ritorsione: un video di 18 minuti mostra la decapitazione di dieci prigionieri. Il fatto che a minacciare ritorsioni contro l’America sia un jihadista che parla con accento londinese (dell’East End, dice un esperto sentito dal Guardian) rende il messaggio più credibile e aumenta il suo appeal per i simpatizzanti che abitano in occidente. Secondo il giornalista Martin Chulov, l’uomo del video si fa chiamare “John” e da tempo si occupa degli ostaggi in lingua inglese caduti in mano allo Stato islamico (sarebbe stato riconosciuto da alcuni di loro e anche da alcuni negoziatori coinvolti nelle trattative). John lavora con altri due jihadisti inglesi e assieme sono conosciuti come “The Beatles”.
A inizio luglio l’intelligence americana ha chiesto a Twitter di non disattivare gli account dello Stato islamico, per continuare ad analizzare i tweet e a ricavare dati preziosi dal flusso. Il Califfato è consapevole di stare cedendo informazioni in pubblico, ma le controlla. Dall’altra parte, da quella degli analisti, si sa che sono tweet approvati per la propaganda, ma contengono comunque notizie (come sanno i giornalisti che seguivano la precedente incarnazione dello Stato islamico durante gli anni della guerra in Iraq, quando toccava masticare per mesi la stessa informazione sul leader Abu Mussab al Zarqawi “che viene da Zarqa, in Giordania”). Due giorni fa funzionari del dipartimento di stato e della Difesa hanno contattato i social network e hanno invece chiesto di bloccare la circolazione del video dello Stato islamico, in osservanza del codice di autoregolamentazione dei loro servizi. Non si sa se è stato grazie a queste pressioni o per una decisione presa in autonomia, ma ieri Twitter ha adottato una linea netta: chiunque diffonde il link del video le immagini dell’uccisione di Foley è sospeso. Sembra una questione marginale, non lo è. Lo Stato islamico fa affidamento (faceva) su Twitter per i suoi messaggi pubblici in arabo, inglese e altre lingue, prima della sospensione aveva creato un account per ciascuna delle sue regioni territoriali in Siria e Iraq e il primo messaggio a volto scoperto del suo leader, Abu Bakr al Baghdadi, è arrivato da quel social network (e anche il video di martedì). Secondo l’avviso dato ieri dalla Metropolitan Police in Gran Bretagna, vedere o scaricare il video della morte di Foley potrebbe già costituire reato connesso al terrorismo.
Il 22 novembre 2012 James Foley era nel nord della Siria a pochi chilometri dalla Turchia, dove contava di arrivare in poco più di un’ora. Aveva dimenticato il telefono in un internet cafè a Binnish, una città nella provincia di Idlib, era tornato indietro a recuperarlo assieme a un altro giornalista occidentale, erano stati lasciati a piedi dal loro tassista. Avevano preso un altro taxi ma arrivati a Taftanaz, dove a quel tempo l’enorme aeroporto militare era ancora in mano al regime, erano stati fermati per strada da una macchina da cui erano scesi uomini armati. Da quel giorno James Foley è scomparso nel nulla. Lo Stato islamico come lo conosciamo adesso non esisteva ancora (la sua creazione sarebbe stata dichiarata sei mesi più tardi, nell’aprile 2013). L’ipotesi che allora fu considerata più credibile è che i due fossero stati portati via da un gruppo di “shabiha”, una squadraccia di volontari del regime che viveva in un villaggio sciita a poca distanza. Uno dei committenti di Foley, il Global Post, incaricò una compagnia di indagini private, la Kroll, di condurre una ricerca costosa e nel maggio 2013 pubblicò un articolo in cui si diceva che il reporter era stato trasferito centinaia di chilometri a sud, nella capitale Damasco. Secondo “rapporti multipli e indipendenti di fonti molto credibili”, Foley era prigioniero in un carcere controllato dai servizi segreti dell’aviazione (una divisione dell’intelligence particolarmente fedele al presidente Bashar el Assad). In realtà, come ieri ha riconosciuto il direttore del Global Post, il giornalista era stato catturato da un gruppo criminale e poi venduto allo Stato islamico nell’area di Aleppo, “ma non abbiamo dato la notizia su richiesta della famiglia”. Quando a gennaio è scoppiata la guerra tra i gruppi ribelli e lo Stato islamico, Foley è stato trasferito a Raqqa, verso est, più vicino al confine con l’Iraq, dove c’è la prigione gestita dai “Beatles”. Le immagini del video fanno pensare alla zona arida nel governatorato di Hasaka, l’ultima prima di entrare nell’area di Mosul. Assieme a Foley compare il giornalista americano Steven Sotloff, anche lui vestito con la tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo (una citazione diretta dei video di Zarqawi, a cominciare dall’uccisione di Nicholas Berg nel maggio 2004, dieci anni fa). Lo Stato islamico minaccia di uccidere Sotloff se Obama non cambierà la sua linea politica interventista in Iraq.
Ieri il presidente Obama ha ricordato Foley in una breve apparizione davanti ai giornalisti, e pur senza elaborare ha fatto intendere che la politica americana in Iraq non cambia. Ha citato anche la Siria, dicendo che i siriani non meritano “né la tirannia né il terrorismo”, una frase carica di significato considerato che gli aerei e i droni americani bombardano a pochi chilometri dal confine dell’area siriana occupata e controllata dal Califfato. Il Pentagono si prepara a bombardamenti aerei attorno a una seconda diga controllata dallo Stato islamico, a Haditha. L’obiettivo è parecchio più a sud di Mosul, nel cuore della provincia di Anbar, zona storicamente in mano agli uomini del califfo Abu Bakr al Baghdadi sin dai primi anni della guerra americana (Fallujah è a poca distanza). I bombardamenti americani a nord hanno ottenuto molto con poco, spingendo in avanti le milizie curde, e certo questo effetto galvanizzante attrae i pianificatori militari americani, che vedono l’opportunità di chiamare nella mischia i clan sunniti locali. Anche per questa seconda fase è necessaria però la firma di Obama, che troverà difficile citare le ragioni originali dell’intervento militare (“proteggere la vita del personale americano a Erbil e Baghdad”). E Obama ha già detto di non volere trasformare i jet americani “nell’aviazione irachena”.
Ieri un attento osservatore del jihad, Brian Fishman, ha pubblicato un intervento asciutto e pessimista sulle possibilità dell’America di battere lo Stato islamico. Fishman scrive che appoggiare e armare le milizie locali e bombardare sono soluzioni deboli e temporanee: estinguere il Califfato richiede un impegno a lungo termine, costoso, e un livello di consenso politico praticamente irraggiungibile. Esaurita l’onda dell’emozione causata dall’uccisione di Foley, chi riuscirà a prendersi questo incarico? (Obama adesso no, è la conclusione implicita). Sullo sfondo delle analisi politiche e militari, incombe un interrogativo centrale. Washington stringerà un’alleanza funzionale con Bashar el Assad contro il Califfato? Domani cade l’anniversario del massacro con armi chimiche di millequattrocento civili alla periferia di Damasco.
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