Criticare la vittima perché è vittimista? Un'avversione un po' strana

Alfonso Berardinelli

Ci sono le vittime dell’ingiustizia sociale, quelle dei conflitti armati, quelle della natura e del caso, quelle degli avversari politici, le vittime infine della loro stessa famiglia. Sono così tanti i tipi di vittime che una critica della vittima appare assurda, o stravagantemente faziosa.

Già il titolo mi aveva colpito negativamente. Ma anche dopo aver letto dalla prima all’ultima pagina, “Critica della vittima” di Daniele Giglioli (Nottetempo, 128 pp., 12 euro) l’interrogativo sospettoso resta. Perché all’autore è venuto in mente di criticare la vittima? Perché dedicare a questa critica non venti o trenta righe ma più di cento pagine fitte di sottili (spesso troppo sottili) argomenti e di citazioni da molti (forse troppi) autori? Che cosa gli dà fastidio nella vittima, nelle vittime ? Ce l’ha con la vittima o con il vittimismo, deformazione ricattatoria che può trovarsi nelle vere vittime, nelle ex vittime poi privilegiate, nelle vittime immaginarie e infine in chi non è affatto vittima, anzi, ma parla a nome delle vittime riscuotendo applausi, successo, privilegi e potere?

 

Non sempre riesco a seguire Giglioli nei suoi ragionamenti. E’ troppo intelligente. Mette in campo troppa cultura per non essere sospettabile di voler mascherare una molto semplice, istintiva avversione o fobia per la situazione di vittima, situazione di cui, credo, conosce e immagina poco. A meno che non si tratti di ex vittime divenute boss, leader, star che perseguitano moralmente, politicamente, perfino militarmente gli altri per ottenere vantaggi o per stabilire la “loro” giustizia, operando ingiustizie divenute (secondo loro) necessarie: a meno che il vittimismo non sia un’ideologia giustificatoria, la vittima, se è vittima, non ho mai sentito il bisogno di criticarla. Potrei farlo solo nel caso che io mi trovi nella sua stessa situazione e veda perciò con chiarezza che il vittimismo della vittima la danneggia ulteriormente e danneggia inutilmente gli altri.

 

Non si tratta solo di ideologie e miti che Giglioli vuole “decostruire”: le armi moderne e le stragi delle popolazioni civili hanno fatto del Novecento il secolo delle vittime. Inoltre il riconoscimento legale e costituzionale di molti diritti a cui non viene data soddisfazione ha aumentato, aumenta, sia le vittime che il vittimismo. Ci sono le vittime dell’ingiustizia sociale, quelle dei conflitti armati, quelle della natura e del caso, quelle degli avversari politici, le vittime infine della loro stessa famiglia. Sono così tanti i tipi di vittime che una critica della vittima appare assurda, o stravagantemente faziosa.

 

In questo libro l’esibizione bibliografica e la mania citazionistica, che sempre più imperversa nelle università, hanno complicato ulteriormente e spesso inutilmente le cose: si va dall’onestissimo e sobrio Kant a un chiacchierone come Zizek passando per Benjamin, da tempo diventato una sirena capace, senza sua colpa, di incantare e confondere anche i migliori cervelli.

 

Una realtà che va oltre ideologie e miti è il fatto che la vittima può anche avere una personalità particolare. Se ho subìto un certo genere di torti sociali, è piuttosto naturale che diventi particolarmente sensibile allo stesso tipo di torti subìti da altri, restando magari insensibile o quasi a torti diversi. Gli operai di una volta, per esempio, erano notoriamente molto sensibili allo sfruttamento capitalistico e alle angherie padronali, ma insensibili o peggio all’oppressione e discriminazione subita dalle donne, dai neri, dagli omosessuali. Una certa dose di vittimismo entra a far parte dell’identità della vittima anche quando è ormai una ex vittima.

 

Nonostante la sofisticazione delle sue analisi, mi sembra che il discorso di Giglioli pecchi di generalità. In cerca di paradigmi e dispositivi mentali che unifichino e spieghino cose molto diverse, l’autore ha deciso di procedere in obbedienza a uno schema prestabilito che lo porta a sostenere la sua tesi anche quando cerca di addentrarsi nel labirinto delle situazioni e dei fatti.
La sua tesi è che la vittima ha in sé qualcosa di radicalmente sbagliato, e che se si vuole farle del bene bisogna convincerla a non sentirsi vittima per restituirle una “ontologica” pienezza umana. Facile a dirsi e nobile (sembra) proporselo. Ma è esattamente ciò che di fatto non avviene.

 

“Dalle vittime reali alle vittime immaginarie il tragitto è lungo e accidentato” dice Giglioli. Vorrei aggiungere che i tragitti sono molti e ognuno va giudicato volta per volta. La critica della vittima dovrebbe essere riformulata come critica dei singoli percorsi che portano dalle vittime reali a quelle immaginarie, dalla giusta rivendicazione al ricatto morale perpetuo e all’autogiustificazione totale. Le ex vittime al potere diventano spesso implacabili e paranoiche nel loro desiderio cieco di rivalersi e vendicarsi non si sa più per che cosa. Inutile fare nomi. Ce ne sono parecchi nella cronaca e nella storia.

 

Succede che prima o poi la maggior parte degli essere umani sia vittima di qualche torto, ingiustizia, coercizione, tradimento, privazione. Questo non significa che siamo tutti ugualmente vittime. Quando la violenza o la durata di ciò che ci colpisce supera un certo limite, è fatale che la vittima elabori la propria identità in una forma particolare.

 

Il saggio di Giglioli si apre con questa frase: “La vittima è l’eroe del nostro tempo”. E continua così: “Essere vittima dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima, immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio”.

 

A volte, chissà, forse sì, forse no. Comunque non esageriamo. L’autore valorizza la sua tesi con una suggestiva pagina provocatoria, in cui vero e falso si sovrappongono, o meglio il falso e l’inesatto vengono nascosti con qualcosa di vero. Ciò che Giglioli non sopporta è la vittima petulante e lagnosa, è la maschera, la retorica della vittima. Doveva perciò intitolare il suo libro “critica del vittimismo”. Non lo ha fatto perché credo che Giglioli rimproveri alla vittima non tanto la sua retorica quanto la sua debolezza, l’essersi messa nei guai perché debole.

 

Ovvia e nello stesso tempo strana questa avversione. La vittima (questo vuole o prescrive l’autore) deve agire, non sentire, deve migliorare le cose, non recriminare. Soprattutto deve dimenticare di essere stata vittima. La giusta via, secondo l’autore, è “passare alla prassi”. La formula è perentoria, ma di quale prassi si parli non viene detto. Bisogna essere forti, non deboli. “La mitologia vittimaria è una subalternità che perpetua il dominio” conclude Giglioli.

 

Posso fare finta di capire, ma non capisco bene. Mi sembra che oggi accada il contrario: il dominio si perpetua da sé, soprattutto quando le vittime non sanno più di esserlo, si sentono uguali a chi le domina. Anzi amano e imitano chi le domina.

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