Papà s'è perduto
Per il figlio non ha più alcuna autorità. Peter Pan e Harry Potter, gli orfani che incarnano la crisi del maschio d’oggi.
Peter Pan e Harry Potter sono due orfani maschi e incarnano bene la crisi del maschio moderno: il primo, è un goffo monello ammaliante, dalla sessualità incerta, capace di intenerire e allo stesso tempo irritare una come la “femminile” Wendy; il secondo, fatica molto a emanciparsi dalle proprie emozioni e smettere di lasciarsi turbare da loro, mentre la grintosa e battagliera Hermione Granger è, sin dall’inizio, molto saggia e capace di barcamenarsi bene in un mondo, come quello della scuola dei maghi, i cui valori e il cui immaginario continuano a essere spiccatamente maschili. Harry alla fine accetterà l’amicizia di Hermione, riconoscendone le doti, recupererà il ricordo della madre e scalzerà il padre dal piedistallo su cui lo aveva messo.
Come ho mostrato nel libro Immaturità. La malattia del nostro tempo (recentemente ripubblicato da Einaudi in versione ampliata e aggiornata), il Ventesimo secolo è il secolo dell’immaturità e della crisi dei padri: si aprì con Peter Pan (1904) e si è concluso con la saga del maghetto Harry Potter (1997-2007). Harry Potter costituisce la risposta alla questione dell’immaturità rappresentata da Peter Pan. Ne è, anzi, l’antidoto, come sostiene Isabelle Cani (Harry Potter o l’anti Peter Pan, Bruno Mondadori 2008). Peter Pan non vuole crescere, fugge spaventato dal brutto e difficile mondo degli adulti; Harry Potter invece, frequentando la scuola dei maghi di Hogwarts, compie un percorso di crescita e di maturazione che lo porterà a lottare e sconfiggere il male. Attraverso una serie di “passaggi iniziatici” Harry Potter diventa adulto e rinuncia alla spensieratezza, che è ebbrezza del presente, oblio del passato e disinteresse nei confronti del futuro: smette di credersi innocente e si assume la propria parte di responsabilità nella vita. Il padre di Harry Potter è un “padre che non c’è”: è morto all’età di vent’anni, ucciso, assieme alla madre, da Voldemort; ha avuto, in effetti, appena il tempo di calarsi nei panni del giovane sposo e padre. Per quel poco che si può capire, James Potter è un tipico “padre moderno”: immaturo, monello, amico, vittima a sua volta della “sindrome di Peter Pan”.
La cultura che ha saputo dar meglio voce all’incrinamento della figura paterna, ai traumi conseguenti e alle lacerazioni, è stata quella ebraica. Nell’autunno del 1919, Franz Kafka scrisse una Lettera al padre che non venne mai consegnata al destinatario. Si tratta di un testo bellissimo e prezioso per capire come fossero i “padri patriarcali” e che rapporti intercorressero con i loro figli: “Tu eri un vero Kafka in quanto a forza, salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini e per una certa generosità”. Il figlio descrive il padre come una specie di dio, che lo sovrasta anche dal punto di vista fisico, e gliene dà ripetutamente atto: “Tu eri per me la misura di tutte le cose”; “era già sufficiente a schiacciarmi la tua sola immagine fisica”; e ancora: “Come padre sei troppo forte per me”; “mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze”. La diversità tra di loro è la fonte del dolore (“eravamo cosí pericolosi l’uno per l’altro”) e di una situazione insostenibile (“la sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in gran parte dalla tua influenza”). Quell’autorità non regge più al confronto con il mondo moderno, dove un figlio, avendo la possibilità economica di studiare, si emancipa e non ce la fa più (nonostante gli voglia bene) a sottostare ad un’autorità eccessiva e indiscutibile (“ai miei occhi hai l’aspetto enigmatico dei tiranni”). Caduta la maschera di un’autorità arcaica e insostenibile, agli occhi del figlio appare una figura meschina (come lo sono sempre i dittatori detronizzati): “Cominciai ben presto a osservare e a rilevare in te alcuni lati ridicoli, li elencavo e li esasperavo”.
Nel mondo contemporaneo il maschio non riesce a conciliare la proclamata parità delle donne e il suo istinto, spesso inconfessato, di associare l’idea di potere a quella di virilità. In questa competizione avrebbe bisogno di rivelarsi sempre e comunque il migliore; ma siccome i successi delle donne sono sempre più evidenti, egli risulta inferiore e la sua immaturità lo spinge a mascherare la sua debolezza con l’aggressività. La figura del padre, anche quando è violenta, risulta sempre più indebolita. Ma c’è una ragione di fondo, che ha spiegato l’analista junghiano Luigi Zoja, autore del fondamentale Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre (2000), che ha trattato questo fenomeno in Centauri. Mito e violenza maschile (2013): “Diversamente dalla madre, è la storia che ci ha dato il padre, e la storia può riprenderselo. Gli eccessi del patriarcato sono abusi di ogni tipo; guerre vere e proprie ma anche conflitti economici, che il femminismo in gran parte a ragione gli attribuisce. Fino ai ‘padri terribili’ dell’intera società: i dittatori del Ventesimo secolo. Tutto contribuisce al discredito della figura paterna: nelle statistiche dei matrimoni falliti e nei grandi simboli; nella vita familiare e anche in quella pubblica. Ma l’espulsione dalla psiche collettiva di qualcosa che l’ha abitata per millenni non crea un vuoto che si possa riempire a piacere: il suo posto tende a essere preso da un ritorno alle forme che lo avevano preceduto. Una delle colonne del mondo soffre di una fessura cosí grave da non poter reggere più pesi. Quando crolla il padre, quello che la soppianta non è necessariamente una psicologia più femminile. Riemergono piuttosto dall’inconscio collettivo identità maschili più primitive […] Nei casi estremi, ricompaiono – come nelle antiche razzie – gli stupri di gruppo, i cui componenti praticamente non avvertono di essere criminali. Dai valori del padre non si passa tanto a quelli della madre, quanto a quelli del maschio competitivo: l’animale, che combatte per l’accoppiamento, mentre non è cosciente della responsabilità verso i figli”.
Secondo lo psicoanalista Massimo Recalcati, che al tema ha dedicato il volume Cosa resta del padre? (2011) e poi ha indagato il rapporto padri-figli ricorrendo al mito del figlio di Ulisse, siamo sì nell’epoca del tramonto irreversibile del padre, ma ci troviamo anche nell’“epoca di Telemaco”: le nuove generazioni guardano il mare aspettando che qualcosa del padre ritorni. Il complesso di Telemaco è un rovesciamento del complesso di Edipo. Edipo vive il proprio padre come un rivale, come un ostacolo sulla propria strada. I suoi crimini sono i peggiori dell’umanità: uccidere il padre e possedere sessualmente la madre. Telemaco invece si emancipa dalla violenza parricida di Edipo: cerca il padre Ulisse non come un rivale con il quale battersi a morte, ma come un augurio, una speranza, come la possibilità di riportare la Legge della parola sulla propria terra: “Telemaco è il giusto erede non perché eredita un regno, ma perché ci rivela che è solo nella trasmissione della Legge del desiderio che la vita può emanciparsi dalla seduzione mortifera della ‘notte dei Proci’, cioè dal miraggio di una libertà ridotta a pura volontà di godimento”.
Il disagio della giovinezza è il prodotto di fattori individuali e naturali (il problema del corpo, la pubertà, i sintomi e le ferite psichiche) molto complessi e, in parte, ancora da comprendere. Molti ragazzi (spesso proprio i più sensibili, i più introversi) “non ce la fanno” ad adeguarsi all’orda aggressiva e competitiva del mondo degli adulti, rappresentato dai loro padri. Ma esistono cause del disagio molto materiali: nelle attuali condizioni, la maggior parte dei giovani ha difficoltà a trovare lavoro. Non lo cercano nemmeno più: si chiudono in casa, comunicano prevalentemente attraverso internet. Sono i milioni di giovani neet (“Not engaged in Employment, Education or Training”: non impegnati in lavoro, studio o tirocinio).
Gli adolescenti, maschi che hanno “sdoganato il narcisismo”, paiono all’apparenza molto pacifici e lo scontro generazionale sembra assai poco drammatico, rispetto anche soltanto a quello che vissero quelli della mia generazione, una quarantina di anni fa. Lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet ha descritto così lo stato nel quale oggi ci troviamo: “Negli ultimi anni il conflitto fra le generazioni si è molto placato e si è stabilito un armistizio disarmato. Il padre ha deposto le armi, il controllo sociale sui giovani li lascia piuttosto liberi di esprimersi, le pari opportunità hanno dato i loro frutti, le madri sono intente a lavorare e i figli non debbono perdere tempo a liberarsi dalla loro ansia, la scuola è alle prese con le riforme che non riesce mai a portare a buon fine, aspetta che qualcosa di nuovo succeda e nel frattempo lascia vivere i propri studenti”. Ma è proprio questa situazione di anormale normalità che dovrebbe far riflettere e inquietare. L’aggravarsi della crisi economica, e la diminuzione crescente di posti di lavoro, potrebbero far saltare le fragili palafitte della convivenza sociale, rendendo patologici i conflitti intergenerazionali.
Sempre più spesso, però, si è passati dalla crisi dell’autorità del padre alla tirannia del gruppo dei pari età. Naturalmente questa trasformazione non si presenta come processo lineare e ordinato. Il giovane non ha più il modello di riferimento nel maschio della generazione precedente, ma nei coetanei. Spesso impara dal compagno frivolo e godereccio: è quello che Zoja ha chiamato il “complesso di Lucignolo”, il quale seduceva Pinocchio ben più del noioso padre Geppetto.
Lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ha visto il conflitto generazionale all’origine delle Prospettive sulla guerra civile (un suo saggio del 1993) e ha sostenuto che non bisogna farsi ingannare dalle apparenze: l’inizio non è sanguinoso, dagli inizi non traspare mai fino in fondo il pericolo. La guerra civile molecolare comincia in modo impercettibile, senza mobilitazione generale, ma i giovani ne sono l’avanguardia: “Tutto quel che gli odierni adolescenti amorfi e frustrati potranno fare di violento, esiste già in forma latente nei loro genitori: una furia distruttrice solo a malapena canalizzata in forme socialmente tollerate quali guida spericolata, ingordigia, fanatismo nel lavoro, alcolismo, avidità, mania di citare in giudizio, razzismo e violenza in famiglia”.
Oggi, l’aspetto più dolente del dilagare dell’immaturità sta proprio nel conflitto tra vecchi e giovani. E la vecchiaia (e soprattutto il modo in cui è trattata) è diventata la cartina di tornasole del combiamento dei costumi e della mentalità. Che cos’è oggi la vecchiaia? “How Terribly Strange To Be Seventy” (com’è terribilmente strano avere settant’anni), cantavano Simon e Garfunkel in Old Friends (il loro concept album sul ciclo della vita). Proprio nell’anno della rivolta giovanile, pubblicarono il disco Bookends (1968), che, oltre alla canzone citata, conteneva Voices of Old People, che era costituita interamente da conversazioni di persone anziane registrate personalmente, e con grande rispetto, da Art Garfunkel in varie case di cura e ospizi degli Stati Uniti. Un’altra canzone del disco, Mrs Robinson, era stata la colonna sonora del film Il laureato (1967) di Mike Nichols, che narra dell’amore tra una matura signora e un giovanotto impacciato e immaturo (Benjamin “Ben” Braddock, interpretato da un perfetto Dustin Hoffman), a disagio con il mondo degli adulti. Il libro e il film avevano un lieto fine ma lo spettacolo dei giovani non era incoraggiante.
La vecchiaia è in sé una guerra. Lo ha scritto molto bene Mauro Portello, in un saggio intitolato Che vecchio potrei essere?: “Di fronte alle prove estreme che la vecchiaia chiede a un individuo, fatte di resistenza fisica e psichica, di capacità di sopravvivenza in terreno ostile, la vita sembra essere (stata) solo un lungo addestramento per affrontare questa ultima guerra. C’è chi si arrende, chi lotta eroicamente, chi passa al nemico, chi muore in battaglia, chi nelle retrovie mentre netta cessi. Ma è una guerra, ed è una guerra pura, per così dire, svincolata dalla possibilità di un esito felice, il finale è imposto. Ci si batte non per ‘vincere’, ma, semplicemente, in quanto esseri appartenenti alla vita”. Portella offre una campionatura ironica dei vari “tipi di vecchiaia” e conclude: “Il fatto è che la vecchiaia è un pensare se stessi come esseri da salvare, una sorta di meta-pensiero, ci si vede come gli esiti di un certo investimento, e non si pensa più all’investimento, ma ai suoi frutti, solo a quelli. Per questo, credo, è terribilmente strano. Dopo un’esistenza di prudenze, accaparramenti, risparmi, accantonamenti, gruzzoli e riserve, con la vecchiaia arriva l’ora di spendere e consumare, centellinando; e si spende e consuma solo ciò che si è riusciti a mettere da parte. Non intendo qui riferirmi allo status economico delle persone, quello ha un’evidenza tutta sua (drammaticamente attuale). Io penso piuttosto al capitale interiore, quello, per altro, con cui ci si ritroverà a combattere anche il nostro status economico. Al netto delle ‘impurità’ del mondo e delle ‘imperfezioni’ dell’individuo, la mia ‘azione’ da vecchio godrà o patirà dei limiti che avrò stabilito per me, e probabilmente solo io sarò il responsabile della mia appartenenza a questa o quella tipologia di vecchiaia”.
La storia del Novecento ci ha mostrato chiaramente che una cultura giovanilistica e immatura, e la pratica su di essa basata, sono in realtà assai reazionarie e foriere di disastri: la più grande esaltazione del mito della gioventù è stata fatta dai regimi totalitari. Invece, la forza sta proprio nell’unire il meglio della gioventù con il meglio dell’anzianità. Le poche rivoluzioni, tutto sommato positive, della storia dell’umanità sono quelle che hanno visto alleati vecchi e giovani, esperienza ed energia, maturità e immaturità. Negli ultimi cento anni: le guerre di liberazione nazionale (dalle guerre partigiane alle lotte guidate da personaggi, non certo giovinetti, come Gandhi e Mandela) e i movimenti democratici nell’est europeo. La maturità spinge alla ricerca delle alleanze e media i conflitti, l’immaturità invece cristallizza, esaltando un’indefinita gioventù, le età e le stupidità.
Il Foglio sportivo - in corpore sano