Cosa ordinano su Amazon i jihadisti prima di andare in Siria?
L’“architetto” dell’undici settembre frequentava il quartiere a luci rosse di Manila negli anni Novanta. L’attentatore di Madrid aveva una fidanzata che amava i vestiti appariscenti. I terroristi delle Torri gemelle andarono negli strip club di Las Vegas e della Florida prima dell’attacco.
Pubblichiamo ampi stralci di un articolo apparso sull’edizione online della New Republic con il titolo “Questo è quello che gli aspiranti jihadisti ordinano su Amazon prima di partire per la Siria” e in precedenza apparso sul New Statesman
Indovinate quale libro i due aspiranti jihadisti Yusuf Sarwar e Mohammed Ahmed hanno ordinato online su Amazon prima di lasciare Birmingham per la Siria lo scorso maggio. Una copia delle “Pietre miliari” dell’islamista egiziano Sayyid Qutb? No. Magari “Messaggi al mondo”, l’analisi completa dei discorsi di Osama bin Laden? Provate ancora. Allora “The Anarchist Cookbook”, vero? Sbagliato.
Sarwar e Ahmed, che si sono dichiarati entrambi colpevoli di reati legati al terrorismo il mese scorso, hanno comprato “Islam for Dummies” e “Il Corano for Dummies”. Non c’è migliore prova del fatto che i 1.400 anni di religione islamica abbiano poco a che vedere con il moderno movimento jihadista. I giovani uomini che traggono piacere sadico dagli attentati esplosivi e dalle decapitazioni possono anche giustificare la loro violenza con la retorica religiosa – si pensi ai killer di Lee Rigby che urlano “Allahu Akbar” al loro processo, o alla decapitazione da parte dello Stato islamico del giornalista James Foley, presentata come parte della “guerra santa” – ma non è il fervore religioso a muoverli.
Nel 2008 un report sul radicalismo preparato dall’unità di scienze comportamentali dell’Mi5 fu fatto trapelare al Guardian. Rivelava che, “lungi dall’essere fondamentalisti religiosi, un gran numero di quanti coinvolti nel terrorismo non pratica regolarmente la propria fede. Molti sono privi di un’educazione religiosa e (…) potrebbero essere considerati novizi”. L’analisi concludeva che “una forte identità religiosa in realtà evita la radicalizzazione violenta”, scriveva il giornale.
Chi cerca più prove legga i libri dello psichiatra forense ed ex agente della Cia Marc Sageman, dello scienziato politico Robert Pape, dello studioso di relazioni internazionali Rik Coolsaet, dell’esperto di islam Olivier Roy, dell’antropologo Scott Atran. Hanno studiato tutti le vite e le condizioni sociali di centinaia di jihadisti armati di bombe e pistole e tutti concordano sul fatto che l’islam non è da incolpare per il comportamento di questi uomini (sì, di solito sono uomini).
Questi esperti indicano ragioni diverse per la radicalizzazione: lo sdegno morale, la disaffezione, la pressione sociale, la ricerca di una nuova identità, il bisogno di un senso di scopo e di appartenenza. Come Atran ha detto in una testimonianza davanti al Senato americano nel marzo 2010: “A ispirare i più letali terroristi del mondo oggi non sono tanto il Corano o gli insegnamenti religiosi quanto una causa eccitante e un invito all’azione che promette gloria e considerazione agli occhi degli amici e, attraverso gli amici, rispetto e memoria nel mondo”. Atran descrive gli aspiranti jihadisti come giovani uomini “annoiati, disoccupati, troppo qualificati e sopraffatti” per cui “il jihad è un datore di lavoro egualitario e ricco di opportunità… eccitante, glorioso e cool”. Come ha detto Chris Morris, autore e regista della commedia nera del 2010 “Four Lions” – che si prendeva gioco dell’ignoranza, dell’incompetenza e della assoluta banalità dei jihadisti inglesi –: “Il terrorismo è una questione di ideologia, ma anche di imbecilli”.
Imbecilli, non martiri. “Figure patetiche”, per citare l’ex capo dell’Mi6 Richard Dearlove, non guerrieri della fede. Se vogliamo colpire il jihadismo, dobbiamo smettere di esagerare la minaccia che questi ragazzi rappresentano e di dare loro l’ossigeno di pubblicità di cui hanno bisogno, e iniziare a mettere in chiaro come molti di loro conducano una vita tutt’altro che islamica.
Quando viveva nelle Filippine negli anni Novanta, Khalid Sheikh Mohammed, definito dalla commissione per il 9/11 “il principale architetto” degli attacchi dell’undici settembre, una volta fece volare un elicottero con uno striscione con scritto “I love you” sull’edificio dove lavorava una sua ragazza. Suo nipote Ramzi Yousef, condannato all’ergastolo per il suo ruolo negli attentati del 1993 al World Trade Center, aveva anche lui una ragazza e, come suo zio, frequentava spesso il distretto a luci rosse di Manila. L’agente dell’Fbi che diede la caccia a Yousef disse che “si nascondeva dietro al mantello dell’islam”. Testimoni oculari sostengono che i dirottatori dell’undici settembre hanno visitato bar e strip club in Florida e a Las Vegas subito prima degli attacchi. I vicini spagnoli di Hamid Ahmidan, arrestato per il suo ruolo nell’attacco terroristico al treno di Madrid del 2004, lo ricordano “sfrecciare su una motocicletta con la sua ragazza dai capelli lunghi, una donna spagnola amante dei vestiti appariscenti”, dice un’inchiesta giornalistica.
La religione gioca ovviamente un ruolo. In particolare, una forma perversa e politicizzata dell’islam agisce come “veicolo emozionale” secondo le parole di Atran, come un mezzo per articolare la rabbia e mobilitare le masse nel mondo musulmano. Ma fare finta che il pericolo venga solo dai devoti potrebbe essere un errore terribile. Qualsiasi cosa il Daily Mail o il ministro Michael Gove dicano, le barbe lunghe e le tuniche non sono un sintomo di radicalizzazione; idee ultraconservatrici o reazionarie non conducono automaticamente ad atti violenti. I musulmani non sono tutti islamisti, gli islamisti non sono tutti jihadisti e i jihadisti non sono tutti devoti. Dire il contrario non è solo sbagliato, potrebbe essere fatale.
Mehdi Hasan è un giornalista inglese, direttore della sezione politica dell’Huffington post inglese e presentatore di al Jazeera.
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