Quando c'era la naja almeno certi coglioni restavano chiusi in caserma
Saggio e sacrosanto e logico, quando la naja era in pieno fulgore – cartolina precetto che pareva ordine di cattura, feroce rasatura della chioma tale e quale a quella dell’hippy capelluto di “Hair” – evitarla, scamparla, fregarla.
Saggio e sacrosanto e logico, quando la naja era in pieno fulgore – cartolina precetto che pareva ordine di cattura, feroce rasatura della chioma tale e quale a quella dell’hippy capelluto di “Hair”, genitori che mai assecondavano né il dubbio né la possibile latitanza del pargolo, ché si sa, si ammoniva, chi non è buono per il re poi scarseggia pure con la regina – evitarla, scamparla, fregarla. Era, il disperato tentativo, strepitoso armamentario della meglio cialtroneria italiana: uno zio maresciallo (c’era abbondanza di marescialli, allora, nelle famiglie italiane: nell’immaginario panciuti, baffuti, pochissimo ginnici), parente con amico arciprete, medico che forse ci favoriva un certificato con attestazione della nostra pochezza fisica, fragilità organica, il famoso soffio al cuore capace di mutarsi in maestrale che poteva farci volare fuori dalla futura e funesta camerata, la sempre santificata deficienza toracica. Era tutto un presentarsi alla visita di leva – quell’imperioso pubblico mutandamento, con tastamento di coglioni (ahi!), la conta deprimente dei centimetri circostanti che sempre parevano sopravanzare i propri – con plantari rimediati a testimonianza di piedi piatti, occhiali da vista da ciecato genere rag. Filini, poche volte la botta di culo di figurare quale terzo figlio maschio – e quelli che consigliavano di mettere foglie di tabacco nell’acqua calda, certi che le mettevano sotto le ascelle, a tentativo di procurarsi un febbrone come quello di don Abbondio. A parte i matti (per ogni altro, matti da legare: un amico fascio che si godeva i parà, qualche esemplare comunista che vagheggia l’esercito democratico di popolo) nessuno voleva fare il militare. Proprio nessuno. Mai stato spirito guerriero da queste parti – persino il duce, che aspirava a qualche milione di baionette, figurarsi, quando doveva spararla grossa diceva: “Se avanzo seguitemi…”. “Se”, appunto: manco lui sapeva cosa fare. Infatti, l’epica militare ha sempre latitato: e il “Luciano Serra pilota” è robetta che impallidisce davanti a “La grande guerra” di Monicelli o alla “Marcia trionfale” di Bellocchio (un crudele cap. Asciutto ognuno paventava nel suo futuro di coscritto).
Pure ingenerosamente (e pure a ragione) appariva la caserma una sorta di universo concentrazionario, prove di sadismo, ordini che parevano la fotocopia del Comma 22. Così, quasi sempre, il nostro mondo militare è (era) stato raccontato – hai voglia a piazzare lapidi con citazioni alla Diaz, “le armi valgono solo se dai cuori sorrette”, sì, vabbè… E se così non era, allora si mutava la medagliata struttura (al val. mil.) in reticolato per le esibizioni canterine del soldato Morandi, suocero il mar. Nino Taranto, o del soldato Serafino/Celentano, o del col. Buttiglione accasato c/o la “Zanzibar”. O nell’avamposto fervidamente tenuto sotto controllo da Paolo Poli, con generoso rimorchio di aviatori che poi, consolati e amichevoli, portavano le fidanzatine a teatro a salutare il brioso artista. Insomma, la gloria militare nostra è sempre stata un po’ così: molta sulle lapidi, poca nella sostanza. Parecchia retorica del gagliardetto da una parte; sul fronte opposto, abbondante retorica (comica soprattutto quando voleva apparire seriosa) pacifista, fino alla surreale apparizione sulla scena, negli anni Settanta, dei “proletari in divisa” – “contro l’esercito dei padroni, riprendiamoci il diritto alla libertà”, e “festa dei soldati democratici” in quel di Villa Borghese, con bellissime foto di Tano D’Amico a testimonianza.
Perciò, quando dieci anni fa la naja obbligatoria fu “sospesa” (non abolita) gran giubilo si diffuse nel paese, a cominciare dai nati nell’86 che non avrebbero più dovuto esporre i coglioni a non richiesti toccamenti. Ognuno esultò: dalla sinistra ai berlusconiani. Ognuno rivendicò: il merito è mio. Todos militesenti – e peraltro, socialmente, re e regine già si confondevano abbastanza tra di loro. Dieci anni – e adesso a nessuno può passare per l’anticamera del cervello di rimettere la naja all’onor del mondo. Cubo/Car/rancio/spina/signorsì/stecca: parole praticamente sparite persino dall’immaginario nazionale, quando in corsia militare appariva la dottoressa. E’ stato un bene, ovvio. Ma è stato un bene, come appare ovvio? Nell’edificazione del sentimento patrio, poco è cambiato (poco era, poco è), ma per esempio, quando vedi palestrati vacanzieri nostrani a zonzo per Barcellona (almeno per nostrani sono stati spacciati), col pisello e culo di fuori, un certo rimpianto, se non per il cap. Asciutto (quello è troppo) almeno per il col. Buttiglione ti viene. Non che ne avrebbe fatto dei piccoli tamburini sardi, figurarsi, ma la consegna in caserma avrebbe evitato che certi coglioni (nel caso, mica in senso figurato: letterale) andassero in giro.
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