Lietta Tornabuoni, Francesco Maselli e Giovanni Grazzini alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia del 1968

Ciao venerati maestri

Mariarosa Mancuso

La prima Mostra del Cinema di Venezia dell’èra Renzi un brividino lo dà, ai favorevoli come ai contrari. Anche al Lido d’ora in poi potrebbe tirare il vento della rottamazione, mentre la maggior parte dei registi ancora invoca il sol dell’avvenire.

In Francia cambiano i governi e il direttore del Festival di Cannes se ne sta bello saldo in posizione: Gilles Jacob cominciò a scegliere i film da proiettare sulla Croisette nel 1978 e ha smesso nel 2004; terminato con il 2014 il suo decennio da presidente già annuncia che resterà nei paraggi “per dare una mano e aiutare i giovani”. In Italia, in controtendenza con lo sport nazionale del riposizionamento, i direttori festivalieri durano parecchio meno. Se restano per più di un mandato non è perché gli vengono riconosciute bravura e competenze: è perché gli aventi diritto alla nomina non riescono a mettersi d’accordo sul successore (a volte non riescono a mettersi d’accordo neppure sugli aventi diritto alla nomina).

 

La prima Mostra di Venezia dell’èra Renzi un brividino lo dà, ai favorevoli come ai contrari (sempre più numerosi soprattutto a sinistra, dove l’altro sport nazionale – perdonare tutto tranne il successo – viene praticato con accanimento). Anche al Lido d’ora in poi potrebbe tirare il vento della rottamazione, mentre la maggior parte dei registi ancora invoca il sol dell’avvenire. Potrebbero sparire le rendite di posizione e i privilegi. Potrebbe capitare che i film italiani siano giudicati con i criteri francesi, che in Europa sono il modello del circolo virtuoso: ti anticipo i soldi sugli incassi futuri, ti faccio sconti sulle tasse, ma se gli spettatori latitano non si dà il caso il meccanismo venga ripetuto abbastanza volte per far di te un venerato maestro. 

 

Matteo Renzi ha da sbrigare questioni più impellenti, e di suo l’Italia cinematografara resiste ai cambiamenti meglio della Costituzione. Il ministro della cultura Dario Franceschini si è distinto per una frase degna di Giulio Andreotti, quando bocciò il neorealismo con la frase “i panni sporchi si lavano in casa” (con il senno di poi aveva ragione, viste le proporzioni del disastro: i film di denuncia e di impegno civile sono ancora fatti come allora, e chi se ne frega se dalla fame siamo passati all’impiattamento). “Mostrate al mondo le bellezze del paese”, suggerì Dario Franceschini ai produttori, auspicando un cinema in caduta pericolosa verso gli spot della Pro Loco.

 

Epperò alla vigilia della Mostra capita di fantasticare. Di immaginare convegni – a volte pomposamente battezzati Stati Generali del Cinema Italiano – dove non prenda sempre la parola Citto Maselli, scamiciato come nelle foto scattate proprio a Venezia nel 1968 (accanto a lui Lietta Tornabuoni, di scorcio una Lancia Flavia). Di sognare che Sabina Guzzanti, se proprio vuole cambiare il mondo, abbandoni il mestiere di regista per cui evidentemente non è portata e si dedichi alla beneficenza.

 

Accarezziamo la pazza idea che i registi italiani candidati al Leone d’oro possano un giorno non lontano raccontare storie con un capo e una coda. Magari storie contemporanee: lo sporco lavoro attualmente tocca a Checco Zalone e ai Soliti Idioti, esclusi dai circuiti premiaroli. Resistete, nostri comici eroi, e vi troverete celebrati nelle retrospettive: quest’anno a Locarno toccava alla Titanus di Goffredo Lombardo, i film più soporiferi e inutili erano firmati Valerio Zurlini e Michelangelo Antonioni.

 

    Piacerebbe l’intervento di un SuperRenzi con il giubbotto di Fonzie (la tuta attillata da supereroe richiede un fisico più asciutto). Dato un occhio al programma, potrebbe lasciarsi scappare qualche battuta da toscanaccio sull’eterno ritorno dell’impegno. Quanto al fatto che l’Italia è malata, quindi i film risultano cupi e deprimenti – lo sostiene il direttore Alberto Barbera in un’intervista ieri sulla Stampa – qualcuno dovrà pur ricordare che le pellicole britanniche sui minatori affamati da Mrs Thatcher erano gran cinema. Non erano lamenti, non erano manine stese a chiedere l’elemosina perché il regista potesse con soldi pubblici girare il suo prossimo capolavoro. 

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