L'appello alle armi del patriarca caldeo
Ci uccidono, l’islam moderato tace, l’occidente deve muoversi. “Sembra che le decisioni e le azioni adottate fino a oggi non abbiano assicurato alcun cambiamento sul corso degli eventi e il destino delle popolazioni colpite è ancora sospeso".
Roma. “Dal 6 agosto a oggi non si è vista ancora una soluzione concreta immediata per la crisi che abbiamo di fronte. Il flusso di fondi, armi e combattenti per lo Stato islamico continua. E nonostante sia in corso una campagna organizzata per la sua eliminazione dall’Iraq, la coscienza del mondo non è ancora pienamente consapevole della gravità della situazione”. A scriverlo, in un appello pubblico “alla coscienza del mondo”, è il patriarca di Babilonia dei caldei, Louis Raphaël I Sako, massima autorità cattolica in terra d’Iraq. Nessuna concessione alle sottigliezze diplomatiche né alla prudenza che si percepisce nella curia romana, impegnata a interrogarsi su quale sia il limite estremo della risposta giusta da dare all’aggressore ingiusto che dà la caccia agli infedeli, cristiani o yazidi che siano. “E’ ormai palese che i cristiani iracheni, insieme alle altre minoranze, hanno subìto un colpo mortale al cuore delle loro vite e delle loro esistenze, attraverso la cacciata di più di centomila cristiani con la forza, o rubando i loro beni, soldi e documenti, o occupando le loro case. E questo solo per essere cristiani”, ha aggiunto Louis Raphaël I Sako.
Il mondo s’è mosso, il riluttante Barack Obama ha autorizzato i raid per fermare l’esercito del califfo e salvare i perseguitati. Eppure, scrive ancora il patriarca caldeo, “sembra che le decisioni e le azioni adottate fino a oggi non abbiano assicurato alcun cambiamento sul corso degli eventi e il destino delle popolazioni colpite è ancora sospeso, come se queste persone non fossero parte della razza umana”. Serve di più, dunque, e chi deve darsi da fare sono “soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione europea, moralmente e storicamente responsabili nei confronti dell’Iraq: non possono rimanere indifferenti”. E dinanzi a chi sciorina elenchi di dotti islamici intervenuti per condannare le “N” di nazareno marchiate sulle case degli infedeli, le crocifissioni e gli sgozzamenti a opera dei miliziani jihadisti, il presule iracheno spiega che “le dichiarazioni della comunità musulmana riguardo gli atti barbarici compiuti nel nome della loro religione e praticati contro la vita, la dignità e la libertà dei cristiani non sono state all’altezza delle nostre aspettative, ben sapendo che i cristiani hanno contribuito e combattuto per questo paese, collaborando con i loro fratelli musulmani”. Il problema è che “il fondamentalismo religioso sta crescendo in potenza e forza, dando luogo a tragedie, tanto da farci chiedere quando gli esperti religiosi islamici e gli intellettuali musulmani inizieranno a esaminare criticamente questo fenomeno pericoloso e a sradicarlo attraverso l’educazione a una vera coscienza religiosa e diffondendo una autentica cultura dell’accoglienza dell’altro come fratello e come cittadino con pieni diritti”. Di fronte a crimini così “terribili e orrendi”, è necessario “un urgente ed efficace sostegno internazionale da tutte le persone di buona volontà per salvare dall’estinzione i cristiani e gli yazidi, componenti autentiche della società irachena. Il silenzio e la passività incoraggeranno i fondamentalisti dell’Isis a commettere ancora più tragedie. La domanda è chi sarà il prossimo”.
La fede tiepida dell’Europa cristiana
Dallo scorso giugno il patriarca Sako denuncia l’avanzata dell’esercito del califfo, l’occupazione di Mosul, la cacciata dalla piana di Ninive dei cristiani, la persecuzione delle minoranze. E, insieme agli altri vescovi, cattolici e ortodossi, guarda all’occidente sperando in una risposta che vada al di là dei comunicati in cui s’esprime dolore e vicinanza per il dramma umanitario in corso e per il martirio cui sono sottoposte comunità che da millenni vivono in Mesopotamia. Il primo a darla, un mese fa, è stato il cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione che – dopo aver trascorso cinque giorni in Iraq e aver visitato i campi in Kurdistan dove sono stati accolti i rifugiati – solo la scorsa settimana invitava a ricordare quanto Giovanni Paolo II disse a proposito della guerra nei Balcani, e cioè che “il pacifismo a volte è in contrasto con il progresso della pace”. Dal resto d’Europa, tanta solidarietà e poco altro, se non il ribadire che la caccia al cristiano è soprattutto figlia dello scontro tutto interno alla umma. Una persecuzione che – essendo più feroce di quella conosciuta in età apostolica, come ricordato più volte anche dal Papa – “deve provocare e scuotere tutti noi che in occidente crediamo troppo tiepidamente”, scriveva giorni fa il cardinale Angelo Scola, che domenica sul Sole 24 Ore osservava come “ciò che sta succedendo in Iraq, in Siria, ma anche in Ucraina, in Afghanistan e in Libia, costituisce per l’uomo europeo una radicale messa in questione. Le notizie e le immagini arrivate da quelle terre hanno travolto la diga di paura mista a indifferenza dietro cui la nostra stanca Europa si stava difendendo, lasciando emergere un drammatico sconcerto. Scoperta dolorosa e destabilizzante, ma anche possibile punto di partenza per un sano ritorno alla realtà, come ritiene Galli della Loggia, senza però false divisioni tra realtà e pensiero”. L’arcivescovo di Milano invitava a “non continuare a rimuovere questioni decisive con cui, invece, occorre fare i conti. L’uomo europeo non può accomodarsi nella sua finitudine gaia, ignorando il fatto che il pianeta è ormai iperconnesso e illudendosi che l’Europa abbia acquisito lo status di zona franca, non toccata dalle circostanze storiche, anche nella loro dimensione maligna e umbratile. E’ una strada rischiosa, ma il rischio fa parte della libertà, e mette in conto la possibilità di dover pagare di persona”.
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