Quella verità inconfessabile sulla Germania nascosta dietro il caso Valls
Il fallimento politico della destra tedesca e della tecnocrazia europea. Le ragioni dell’ex ministro Montebourg.
A Parigi, le celebrazioni per il centenario della Prima guerra mondiale sono state parzialmente oscurate dalla buriana di fine agosto scatenata da un’intervista a Le Monde da parte di Arnaud Montebourg, ministro dell’Economia (in prima approssimazione, il corrispettivo del nostro ministro dello Sviluppo economico) nel governo Valls I, il governo voluto dal presidente Hollande per provare a risalire la china dopo la pesante sconfitta del Partito socialista francese alle elezioni amministrative dello scorso marzo. Dopo l’intervista di Montebourg, il presidente del Consiglio Manuel Valls ha rassegnato le dimissioni e immediatamente ricevuto dal presidente della Repubblica francese l’incarico per formare un Valls II “in coerenza con gli orientamenti definiti per il paese”.
Che cosa ha detto l’ex ministro Montebourg di così pesante da determinare, dopo meno di cinque mesi, la fine dell’esecutivo nato per il rilancio della presidenza Hollande? In un passaggio dell’intervista, Montebourg ha ribadito una posizione fino a un anno fa eversiva, ma oramai condivisa anche dagli ambienti mainstream (con imbarazzanti inversioni a U di tanti commentatori anche nostrani, fino a poco fa assertori convinti dell’“austerità espansiva”): “Le politiche di bilancio dell’Eurozona sono la causa di un non necessario prolungamento della crisi economica e della sofferenza della popolazione europea”. Insomma, quasi un’ovvietà, oggi. In un altro passaggio, però, l’ex ministro ha effettivamente violato un tabù. Ha osato dare nome alle cose. Ha rotto l’involucro ideologico che da un quarto di secolo imprigiona il dibattito economico e fa la sinistra ventriloqua: ha chiesto al suo governo di cambiare verso rispetto “all’ortodossia estrema della destra tedesca”. Ecco la pietra dello scandalo. Nelle parole di Montebourg, l’agenda della politica economica dell’Eurozona non è, come si continua a raccontare, frutto di un’analisi oggettiva e di raccomandazioni di natura tecnica provenienti da istituzioni neutre sul piano valoriale, culturale e degli interessi in campo. No. Il guastafeste di Parigi afferma una scomoda verità: l’economia è politica. La politica economica dell’Eurozona è espressione di una visione politica, quindi di interessi economici e sociali parziali e di una particolare declinazione dell’interesse nazionale: la visione della destra tedesca. Insomma, viene giù il paravento tecnico. Un colpo insopportabile per una sinistra senza bussola. Un conto è sfidare l’impopolarità e deludere per attuare ricette presentate come oggettive e neutre. Altro è dire che la sinistra esegue l’agenda fallimentare della destra seppure un’agenda impacchettata nella carta delle presunte tecnocrazie super-partes di Francoforte e Bruxelles.
Nella reazione del presidente Hollande alle parole di Montebourg vi è certamente una specificità francese: il senso di fragilità e di spaesamento delle sue élite, le difficoltà della Francia a definire una propria funzione nell’Europa radicalmente mutata dopo il 1989 e la necessità di continuare a rappresentare nella pièce europea il partner alla pari o almeno vicino alla Germania. Ma nella brutale normalizzazione dell’esecutivo Valls si possono riconoscere anche i sintomi di una malattia cronica della sinistra europea, in particolare della famiglia dei socialisti europei (inclusi noi, gli ultimi entrati), la prevalente incarnazione storica della sinistra europea: lo smarrimento di autonomia culturale e la subalternità al paradigma liberista sin dai tempi della “terza via”. E’ vero che il presidente Hollande aveva già ricevuto l’ironia anche del Financial Times per aver esaltato, fuori tempo massimo, la “Legge di Say” secondo la quale è l’offerta che crea la domanda. Ma il compagno François non è un caso isolato. I socialismi del nord Europa sono anche essi largamente segnati dalla malattia, come lo sono anche i socialismi di Spagna e Grecia, quest’ultimo oramai estinto. Non a caso, le elezioni europee hanno registrato una sostanziale marginalità dei partiti socialisti, a parte lo specialissimo caso italiano, nonostante le condizioni drammatiche dell’Eurozona. Il punto è che i partiti socialisti non hanno una storia alternativa da raccontare. Perdono senso storico tra le destre ortodosse e pericolosi movimenti anti sistema e anti democratici. Qui e là (Grecia, Spagna, Portogallo, Francia), quando va bene, sono assorbiti o debilitati da movimenti originali, acerbi certo, contraddittori, ma presenti nelle ferite profonde del tessuto sociale e portatori di una visione di cambiamento progressivo.
Insomma, dopo sette anni di mercantilismo liberista, fondato su austerità cieca e svalutazione del lavoro, l’Eurozona si ritrova con un’economia ancora al di sotto del livello del 2007; sette milioni di disoccupati in più; centinaia di migliaia di piccole imprese in meno, un debito pubblico aumentato dal 65 per cento al 95 per cento e prospettive di stagnazione, deflazione e default dei debiti pubblici di tanti paesi, incluso il nostro. Di fronte all’evidente fallimento della ricetta della destra tedesca e di interessi economici e finanziari in sintonia, dopo un risultato elettorale disastroso anche alle elezioni europee del 25 maggio scorso, il presidente Hollande, invece di contribuire a costruire un fronte per una radicale correzione di rotta nella politica economica dell’Eurozona, elimina chi nel suo partito ha avuto il coraggio di indicare il re nudo.
Ma il bicchiere è mezzo pieno. Le valutazioni di Montebourg, insieme a quelle di altri tre suoi ex colleghi di governo (la ministra della Cultura Aurélie Filippetti, il ministro dell’Istruzione Benoît Hamon, la ministra per i Diritti civili Christiane Taubira) e alla posizione dei deputati socialisti sottoscrittori dell’“Appello dei 100” presentato all’avvio del governo Valls I, sono la conferma che nella famiglia dei socialisti europei ci sono le energie per spezzare le catene della trentennale subalternità culturale al liberismo, arrivare a una lettura e a un’agenda autonoma per la grande transizione in corso e salvare il sogno europeo e le democrazie delle classi medie dalla regressione economica, sociale e politica.
L’Italia ha una funzione di primo piano da giocare per contribuire alla correzione di rotta del Titanic Europa. Il governo italiano, presidente di turno dell’Unione europea, deve mettere al centro dell’agenda dell’Eurozona l’insostenibilità della moneta unica nel quadro della politica economica vigente. Dobbiamo puntare a una politica monetaria in grado di portare l’inflazione media europea rapidamente oltre il 2 per cento, al sostegno alla domanda, quindi agli investimenti innovativi in una strategia verde di politica industriale, alla valorizzazione e redistribuzione del lavoro, alla ristrutturazione condivisa dei debiti pubblici insostenibili. Non ha senso insistere sullo scambio riforme-flessibilità. E’ la rotta tracciata a Berlino, Francoforte e Bruxelles da correggere radicalmente. Le prossime settimane chiariranno, in particolare nella Legge di stabilità, da che parte siamo.
Stefano Fassina, esponente della sinistra
del Pd, ex viceministro dell’Economia
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