Brancoliamo nel buio perché Obama preferisce le uccisioni al waterboarding
La Cia è nata per raccogliere informazioni anche con maniere forti. Da un uomo morto non si raccoglie niente
Sono arrivato alla Cia nel gennaio del 1976, ventottenne schietto e ingenuo. Ci sono entrato basandomi solo su una sensazione e su un atto di fede. Nei successivi trentaquattro anni, ho incontrato persone, viaggiato in molti luoghi, e ho avuto a che fare con questioni che erano inimmaginabili e infinitamente affascinanti allo stesso tempo. Sono riuscito a salire la scala lavorativa più in alto di qualsiasi altro avvocato della Cia avesse mai fatto prima. E ho finito per essere una figura pubblica controversa e improbabile nell’ultimo periodo della mia carriera, carriera che ha coperto l’intera storia moderna dell’Agenzia. Ecco una buona domanda da porsi: che conclusioni ho tratto, che lezioni ho imparato, in tutto questo tempo, con tutte quelle esperienze, alla Cia?
Primo, permettetemi di considerare gli anni tumultuosi e gravi succedutisi agli attacchi dell’11 settembre 2001. Per me, la lezione più ironica da imparare dall’èra post 9/11 è questa: è molto meno rischioso dal punto di vista legale, e in molte zone considerato molto più giustificabile dal punto di vista morale, braccare e uccidere un pericoloso terrorista di quanto lo sia catturarne uno e interrogarlo in modo aggressivo. Questo è come minimo il consenso de facto emerso dai primi dieci anni dopo l’11 settembre in influenti settori del Congresso Usa, nei media, nella comunità per i diritti umani. Come altro si potrebbero spiegare il rumoroso sdegno e i lunghi, sensazionali articoli investigativi sulle prigioni segrete della Cia e sulle sue tecniche interrogative, mentre per tutto il tempo gli operativi di al Qaida venivano fatti a pezzi, in piena vista, da droni Usa senza generare però un’ondata di critiche ovunque al Congresso, nei media, o in qualsiasi organizzazione mondiale per i diritti umani? Per tali entità, uccidere non sembrava essere qualcosa di così grave, perlomeno finché sono andato in pensione nel 2009. Al contrario, per molti di noi alla Cia, il fatto che ci venisse ordinato dal presidente degli Stati Uniti di uccidere delle persone – seppure terroristi di al Qaida – era qualcosa di decisamente grave. Nell’ultimo periodo della sua Amministrazione, Bill Clinton aveva emesso alcuni Memorandum of Notification verso l’Agenzia, formulati in modo ambiguo e fortemente cautelativi, sull’uccisione di Bin Laden e di qualsiasi suo accolito avesse la sfortuna di trovarsi con lui al momento. Dato che Bin Laden non si riusciva a trovare da nessuna parte, l’Agenzia non arrivò mai vicina a metterlo nel mirino. Quel momento non sarebbe arrivato fino alla notte del 2 maggio 2011, in quel compound fortificato ad Abbottabad, Pakistan. Trovo ancora così strano, così perverso, che gli stessi gruppi che attaccavano così ferocemente il programma Eit (Enhanced Interrogation Techniques) perché secondo loro non solo fuorilegge ma anche moralmente ripugnante – (la gran parte dei) democratici al Congresso, la Aclu (American Civil Liberties Union), Amnesty International, persino le Nazioni Unite – non scatenassero neppure una scintilla di preoccupazione, ancor meno di rivolta, nei riguardi di un programma Usa di uccisioni sommarie e mirate – che potevano persino provocare la morte di astanti innocenti – condotto simultaneamente, e che ha portato ai risultati che tutto il mondo ha potuto vedere. Fin dai primi giorni dopo l’11 settembre, la priorità dell’Agenzia era quella di catturare i leader di al Qaida, non di ucciderli. Tranne che con Bin Laden, in qualsiasi momento fosse stata nota la posizione di un operativo importante di al Qaida, l’opzione principe era quella di prenderlo in custodia, se mai possibile. Nel marzo 2002, quando fu localizzato Aby Zubaydah in una casa di Faisalabad, l’Agenzia ordinò ai suoi partner pachistani di prenderlo vivo. Zubaydah però si rifiutò di arrendersi e fu seriamente ferito nella sparatoria seguente. Pur di non farlo morire, la Cia mosse mari e monti per permettere che gli venissero date le cure mediche che gli salvarono poi la vita. Successivamente, fu soggetto a lunghe sedute di waterboarding, così come successe a Khalid Sheikh Mohammed un anno dopo. Entrambi gli uomini, ovviamente, sarebbero poi diventati i due soggetti principali e più produttivi del programma potenziato di interrogatori dell’Agenzia. Il fatto che la Cia abbia così insistentemente e istintivamente continuato a usare tale approccio non dovrebbe sorprendere. Per prima cosa, è un’organizzazione di raccolta di informazioni, e raccogliere informazioni da esseri umani è il suo Dna istituzionale. Lo è sempre stato. Non si possono raccogliere informazioni – che riguardino un prossimo attacco catastrofico sul suolo patrio o qualsiasi altra cosa – da un uomo morto. Nulla di più semplice. Di conseguenza, nel periodo che ho vissuto negli anni dopo l’11 settembre, uccidere i terroristi era l’opzione finale. E di sicuro non era l’unica opzione. Ora, torniamo velocemente ai giorni nostri. Le cose sono ovviamente cambiate. Nel momento in cui scrivo queste righe, Bin Laden è morto e sepolto da due anni; il programma Eit è morto e sepolto da quattro anni, così come le prigioni segrete della Cia.
Ecco, sembra proprio che l’Agenzia sia fuori dal giro degli interrogatori e delle detenzioni. Quindi quale sarebbe tuttora il fulcro dell’offensiva dell’Amministrazione Obama contro al Qaida? Secondo quanto riportato da un flusso ininterrotto di racconti sui media negli ultimi quattro anni (che sono tutto quello sul quale mi posso basare ora), tutto gira attorno a uccidere persone, un sacco di persone, attraverso attacchi implacabili e sempre più frequenti compiuti da droni. Apparentemente persino un cittadino americano o due sono stati uccisi nel frattempo. Non metto in dubbio che virtualmente tutti loro fossero persone cattive che meritavano indiscutibilmente di andare incontro al loro destino. Eppure mi pare altrettanto evidente che gli sforzi del governo Usa di catturare e interrogare gli operativi di al Qaida all’estero siano davvero giunti a uno stop. […] La domanda allora diventa: l’entusiasmo dell’Amministrazione Obama nell’abbracciare una politica strutturata e aggressiva per uccidere terroristi era collegato direttamente, o persino provocato, dalla sua decisione di ripudiare una politica strutturata e aggressiva di cattura e interrogatorio degli stessi terroristi? Gli assistenti di Obama (specialmente il mio vecchio amico e collega John Brennan) hanno negato la cosa in modo perentorio. Con il dovuto rispetto, John, non credo ci sia bisogno di essere un analista della Cia di comprovata esperienza per riuscire a capire come stanno davvero le cose. Il che porta alla domanda su quale sarà il ruolo assegnato alla Cia in futuro nell’antiterrorismo. Non posso credere che l’Agenzia ritornerà nemmeno lontanamente prossima a gestire strutture di detenzione né a utilizzare pratiche di interrogatorio anche minimamente coercitive. Dato che la controversia apparentemente infinita sul retaggio di “waterboarding” e “black sites” – l’enorme popolarità e il livore generati dal film del 2012 “Zero Dark Thirty” sono solo uno degli esempi di tale fenomeno – non riesco a concepire che un qualsiasi presidente possa mai riaprire quel vaso di Pandora ancora una volta. Inoltre, nessun direttore della Cia sano di mente potrebbe mai permettere all’organizzazione di intraprendere nuovamente tale percorso. Farlo andrebbe oltre l’umana follia. Non penso che neppure un altro evento catastrofico, un attacco simile all’11 settembre potrebbe mai cambiare tale situazione.
Raccolta di informazioni decisamente aggressiva contro terroristi e minacce terroristiche? Assolutamente. La raccolta di informazioni, come ho già detto prima, è sempre stata la linfa vitale dell’Agenzia. Si è sempre stati d’accordo sul fatto che non fosse solo una missione appropriata per la Cia ma che fosse vitale. Inoltre, raramente c’è stato del rischio politico o uno svantaggio nello spiare, a parte per quei relativamente pochi casi nei quali la Cia è stata colta con le mani nel sacco a piazzare microspie in sedi di governi stranieri o mentre cercava di portare dalla sua parte qualche funzionario di governo straniero. In ogni caso, il peggior risultato negativo è un’operazione compromessa, il relativo imbarazzo politico e forse qualche storia sarcastica sui media. E’ in realtà un caso davvero raro che qualcuno venga ucciso durante lo svolgimento di un’operazione di intelligence della Cia, o perché ne è l’obiettivo. Il che mi riporta a ciò che il futuro riserva alla Cia nelle operazioni sotto copertura dell’antiterrorismo. Solo nell’ultimo anno o giù di lì segmenti del Congresso, i media e la comunità dei diritti umani hanno iniziato a criticare le letali operazioni con droni portate avanti dal governo Usa, una pratica che risale a oltre una decina di anni fa. Questa reazione ritardata si può attribuire a due fattori, ritengo. Il primo è che l’Amministrazione Obama ha alzato la posta, estendendo in modo drammatico il numero degli attacchi con droni, i target ammessi, e il numero di località straniere al centro del bersaglio. Il secondo, che a dire il vero riflette un certo cinismo da parte mia, è che i critici non hanno più un programma Eit contro il quale scatenarsi. I gruppi per i diritti umani e le libertà civili, particolarmente Aclu, avevano bisogno di un altro spauracchio della Sicurezza nazionale da attaccare, anche se un po’ troppo in ritardo, dopo essere stati studiatamente tranquilli a tale riguardo per anni; ora il programma di droni è di nuovo nella loro (ehm) lista di obiettivi.
Pazienza. Credo che il programma droni rimarrà, non solo con Obama ma con chiunque sarà il suo successore. Nell’arena dell’antiterrorismo, di certo, ma un giorno o l’altro – presto – gli attacchi via drone saranno mirati a governi stranieri ostili ritenuti una minaccia imminente di utilizzo di armi di distruzioni di massa contro l’occidente, ai nostri alleati, o persino ai loro popoli. La tecnologia è diventata estremamente raffinata, ed è destinata a diventare ancora migliore. Gli attacchi via drone sono asettici, furtivi, e – dopo le recenti avventure di lunga durata in Afghanistan e Iraq – costituiscono un’alternativa decisamente preferibile per qualsiasi Amministrazione rispetto a truppe schierate e bare ricoperte dalla nostre bandiere che arrivano alla Air Force Base di Dover. Quando accadono tali attacchi via drone, fate affidamento sul fatto che qualsiasi amministrazione li porti avanti tirerà in ballo i suoi legali, che motiveranno razionalmente tali azioni letali in modo che siano in totale conformità alla legge internazionale.
Quindi, sarei propenso a prevedere che i futuri presidenti, con rispetto parlando, non solo continueranno a essere nel giro delle uccisioni, ma che anzi lo raddoppieranno. E che la Cia renderà onore al comandante in capo e sarà nel mezzo di tutto questo, senza alcuna esitazione né resistenza.
Capite, qualsiasi cosa è meno rischiosa del ricostruire “black sites”.
Infine, permettetemi di offrirvi alcune osservazioni sulla Cia che ne diano la visione d’insieme – le lezioni che ho imparato dalla mia esperienza lì e cosa penso che il futuro porterà per l’organizzazione. Principalmente, ho imparato con il tempo che l’Agenzia è un’organizzazione estremamente resiliente. La mia carriera è segnata dalle cicatrici di crisi e controversie alla Cia. In realtà, la mia carriera è racchiusa da esse – arrivai alla metà degli anni 70 all’inizio (e a causa) delle rivelazioni del Church Committee, e sono andato in pensione tre decenni più tardi incalzato dal tumulto del defunto programma di interrogatorio potenziato. Lungo la strada, ci furono le crociate di Casey in America centrale degli anni 80, il contro-scandalo iracheno alla fine di tale decennio, il caso Ames all’inizio degli anni 90, il trambusto per il “dirty asset” un paio di anni più tardi e, ovviamente, gli attacchi dell’11 settembre e il fiasco per le Wmd – armi di distruzione di massa – in Iraq subito dopo l’inizio del Nuovo millennio.
Ogni volta, i catastrofisti al Congresso e nei media hanno criticato la performance, l’integrità, e persino la raison d’être dell’istituzione in se stessa. E, ogni volta, l’Agenzia ha superato la tempesta e si è ripresa. Perché? A mio parere vi sono due ragioni principali. Primo, ciascuno dei sette presidenti che ho servito si è dovuto rivolgere alla Cia, dipendendo da essa. Certo, per Carter e Clinton ci è voluto un po’, ma come tutti gli altri alla fine si sono presentati all’Agenzia. I presidenti imparano che l’Agenzia è un asset unico – si può muovere velocemente, senza i normali vincoli fiscali o operativi delle altre agenzie, e può fare ciò che fa in segreto. Non ha altro cliente, o altro padrone, che l’occupante dell’Ufficio ovale. La Cia, in breve, è il negozio di caramelle personale del presidente. Fa quello – e solo quello – che lui o lei le dicono di fare, incluse azioni sotto copertura. Specialmente azioni sotto copertura. Nessuno di loro vorrà mai disfarsi di tutto ciò, e quindi l’Agenzia sopravvive, a dispetto di tutto. Secondo, la Cia resiste grazie alle persone che vi lavorano. Molti, come ho fatto io, passano gran parte della loro vita professionale lì dentro. Non diventi mai indifferente alle crisi ricorrenti e alle controversie che colpiscono il posto, ma dopo un po’ di tempo inizi a capire che tutte le crisi passano. L’organizzazione si prenderà i suoi colpi, imparerà qualche lezione, e andrà avanti. E cosi farete voi. Prendete ad esempio l’Ufficio del legale generale della Cia. La maggior parte dei legali si sono uniti all’ufficio nell’epoca post 11 settembre, così come il resto dell’attuale forza lavoro della Cia. Sono abbastanza giovani da non essere stati esposti al periodo precedente, ma abbastanza vecchi da essere segnati dal ricordo dell’orrore. Ne ho assunti io un bel po’, e ne sono arrivati a decine da quando sono in pensione. (Un’altra lezione che ho imparato negli anni è che la Cia avrà sempre legali, un sacco di legali, e che essi saranno strettamente interconnessi al tessuto di ogni singola cosa fatta dall’Agenzia). Se l’esperienza può fare da guida, molti di loro rimarranno per decenni, come ho fatto io. Vedranno la loro quota di controversie e di crisi, e forse ne verranno travolti, come ho fatto io. Ma impareranno, e persevereranno, come ho fatto io. Perché amano l’organizzazione e ciò che essa rappresenta, come ho fatto io. Forse, se sono fortunati – come lo sono stato io – un giorno alcuni di loro, quando saranno molto più vecchi, avranno l’opportunità di mettere per iscritto le loro esperienze, per dare ai colleghi più giovani e ai cittadini al di fuori dell’organizzazione un senso di ciò che significava esservi, di cosa si trattava, e perché ne valeva del tutto la pena.
Queste, tutto sommato, sono le ragioni per le quali ho deciso di scrivere questo libro.
Tratto da “Company Man: Thirty Years of Controversy and Crisis in the CIA" (traduzione di Sarah Marion Tuggey)
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