Renzi, i fuochi per non rimanere gelato
I dossier di Palazzo Chigi. Il Cdm di oggi. La giustizia. La scuola. La copertina dell’Economist. I tweet. Gli schemi. La ricerca delle balls of steel. Indagine sul metodo del premier. Cosa funziona, cosa no.
Roma. Le promesse di Matteo Renzi, e lo stile con cui il presidente del Consiglio mette mano alla sua scatola dei fuochi d’artificio che regolarmente offre al pubblico da casa alla fine di ogni pirotecnico Consiglio dei ministri, sono come un buon libro comprato alla fine di una lunga vacanza. Non importa se chi ha comprato quel libro alla fine lo leggerà davvero; conta soprattutto aver acquistato quel libro, averlo a disposizione nella propria libreria, poterlo guardare con occhi compiaciuti e poter pensare che se quel libro è sulla mensola di casa è quasi come aver già cominciato a leggerlo, per non dire che è quasi come averlo letto – “Bello quel libro, l’ho già comprato”. Allo stesso modo, nell’arsenale renziano l’arma della promessa ha una funzione sociale e politica non diversa da quella che ha per un lettore un libro comprato: basta l’aver nominato una riforma per dare l’impressione che quella riforma sia stata già fatta, basta l’aver nominato la flessibilità per dare l’impressione che la flessibilità sia stata già conquistata, basta l’aver annunciato un epocale “sblocca Italia” per dare l’impressione di aver magicamente sbloccato l’Italia e basta l’aver messo insieme le parole “ottanta” e “euro” per dare l’impressione che i consumi italiani siano improvvisamente rifioriti (non è così, ahinoi). Gli specialisti della materia direbbero che Renzi, un po’ come in America i repubblicani al tempo di George W. Bush (da rileggere oggi il delizioso pamphlet di George Lakoff, “Non pensare all’elefante!”), è diventato il mago del “frame”: ed è certamente un merito del segretario del Pd riuscire a imporre con costanza uno schema che ingabbia regolarmente i propri avversari. Dal punto di vista politico lo schema Renzi, potremmo dire anche il metodo Renzi, è una prassi consolidata che rivedremo manifestarsi, in mezzo a mille stelle filanti, anche nel Consiglio dei ministri di oggi. Funziona così. Il presidente del Consiglio annuncia, prima con un tweet, poi con un elenco di magnifiche linee guida quindi con una dozzina di interviste televisive, quali sono le “cose da fare”. Una volta annunciate le “cose da fare”, con solennità fa approvare la lista delle “cose da fare” al Consiglio dei ministri.
Passa un po’ di tempo, le “cose da fare” vengono ripetute all’infinito, tutti concordano sulla bontà delle idee di Renzi, le cose da fare, anche se non ancora fatte, è un po’ come se fossero state già fatte, e arriva il successivo Consiglio dei ministri. Consiglio dei ministri in cui – dopo aver finto una distanza apparentemente incolmabile tra le posizioni del Pd e quelle di Ncd, distanza che poi viene miracolosamente annullata ma la cui esistenza, fittizia, ha avuto nel frattempo l’effetto non secondario di far ricordare agli elettori l’esistenza di un partito chiamato Ncd – si deve decidere come fare le cose da fare. Lo schema è sempre lo stesso: con il passare del tempo alcune delle cose da fare non si possono più fare (per esempio trattare i magistrati come tutti gli altri impiegati della Pubblica amministrazione e mandarli in pensione subito dopo i 70 anni) e ciò che resta da fare viene inserito in due contenitori legislativi: da una parte il decreto, ovvero il provvedimento più urgente, all’interno del quale finiscono spesso le misure meno incisive; e dall’altra parte il disegno di legge delega, che ha tempi più lunghi, e che contiene invece le misure più incisive. Lo spezzatino. E’ andata così con la riforma del lavoro. E’ andata così con la riforma della Pubblica amministrazione. Dovrebbe andare così anche con la riforma della scuola, che secondo alcune fonti dovrebbe però slittare a un prossimo Cdm, e con la riforma della giustizia (che nel frattempo dopo aver visto approvare le sue linee guida ha perso per strada la riforma del Csm e forse anche quella delle intercettazioni). I più ironici e privi di sentimento diranno che lo schema è paraculo e che Renzi se lo merita quel gelatone che quei birichini dell’Economist gli hanno piazzato in mano nella copertina del numero di questa settimana (gelato piazzato nello stesso giorno in cui il Financial Times schiaffeggia Renzi per la carta Mogherini, ma la stampa anglosassone, si sa, sull’Italia non ha mai avuto le idee chiare, e non vorremmo essere costretti a tirare fuori quegli editoriali scritti su carta arancione in cui si descriveva Gianfranco Fini come il prossimo Cesare d’Italia). In realtà le cose non stanno esattamente così.
In realtà, se ben formulate, le promesse hanno una funzione politica simile a quelle che hanno i libri acquistati (vedi l’articolo dell’Atlantic di cui il Foglio ospita alcuni estratti in prima e quarta pagina). E nell’èra della globalizzazione è esagerato dire che l’ottimismo è il profumo della vita (citazione dotta) ma certamente ha un suo effetto nel condizionare gli umori dei mercati (e della politica) e nel determinare specifici trend economici (il famoso “whatever it takes” pronunciato da Draghi nel 2012, come raccontano oggi a pagina due Ernesto Felli e Giovanni Tria citando un paper della Bce, ha generato, solo per essere stato pronunciato, una riduzione di due punti percentuali nei rendimenti dei titoli a due anni del debito pubblico di Italia e Spagna, e un aumento significativo dell’attività reale dei due paesi). Renzi sa come usare le parole, sa come vendere bene le sue promesse e le sue riforme, e sa, chissà da chi l’ha imparato, come creare costantemente un clima da campagna elettorale permanente (visto mai). E quindi. Rilanciare su tutto. Alzare la posta. Preparare slide. Riempire gli scaffali di ottimi libri. Il presidente del Consiglio, oltre che i gelati, mangerà molti panettoni e difficilmente perderà il consenso che ha (che è ancora altissimo, mostruoso). Ma il metodo Renzi, ora che i nemici si sono dissolti, gli avversari sono scomparsi, e ora che capita persino che i principali avversari dei renziani siano degli altri renziani (vedi l’Emilia Romagna, dove si sfideranno alle primarie il renziano Matteo Richetti e il renziano Stefano Bonaccini), deve tener conto di un punto che ultimamente viene spesso segnalato da alcuni saggi ma non troppo ascoltati consiglieri del presidente del Consiglio: “Matteo, non abbiamo nemici, possiamo fare quello che vogliamo, oggi dipende solo da noi, ma dobbiamo avere il coraggio di essere anche impopolari”. Il metodo dunque funziona. Ma prima o poi, a proposito di gelati, Renzi, come in fondo forse vuole dire al premier anche l’Economist, dovrà capire che il consenso non è un fine ma è un mezzo per governare e per mostrare quelle balls of steel che in Europa, e non solo lì, aspettano ormai da un po’ di tempo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano