Bisogna rileggere Panzieri per capire come sono nate le due sinistre italiane
A cinquant’anni dalla scomparsa di Raniero Panzieri (Roma 1921-Torino 1964), che fu dirigente socialista, condirettore della rivista Mondo operaio, poi collaboratore della Einaudi e fondatore dei Quaderni rossi, Cesare Pianciola gli dedica un breve libro.
A cinquant’anni dalla scomparsa di Raniero Panzieri (Roma 1921-Torino 1964), che fu dirigente socialista, condirettore della rivista Mondo operaio, poi collaboratore della Einaudi e fondatore dei Quaderni rossi, Cesare Pianciola gli dedica un breve libro: “Il marxismo militante di Raniero Panzieri” (Centro di Documentazione di Pistoia, 88 pp., 10 euro). Per un paio di settimane l’ho tenuto a portata di mano osservando ogni tanto la foto di copertina. Panzieri è seduto, sporto in avanti con i gomiti sulle ginocchia e la sigaretta fra le dita. Il suo profilo è incisivo, arguto, tagliente, l’espressione attenta ma anche naturalmente ironica. Tutta la sua figura esprime dinamismo e una scattante mobilità di solito assente nei dirigenti di partito, che tendono piuttosto a un certo statico, autorevole compiacimento per il proprio ruolo. Se non deduco male da questa immagine, si vede che per Panzieri la partecipazione politica era – doveva essere – divertente e vivace, animata da una prontezza di spirito e da un’arguzia intellettuale in cui non sembra assente qualcosa di simile all’inventività artistica.
La copertina mi attraeva, il contenuto un po’ meno. I primi anni Sessanta, la scoperta della nuova classe operaia Fiat, la riscoperta di Marx, le origini di una “nuova sinistra” italiana prima del ’68 e infine i miei anni di ventenne universitario che cerca di capire società, letteratura e politica – tutto questo non mi suscita particolari nostalgie. Il marxismo come filosofia dominante, considerata allora storicamente insuperabile, trasmette oggi una sensazione claustrofobica. Tutte le altre tendenze di quegli anni, neopositivismo, fenomenologia, esistenzialismo, pragmatismo, e le più diverse scienze umane, sembrava che non avessero pieno diritto di esistenza se non come integrazioni laterali e aggiornamenti del marxismo. La maggioranza degli intellettuali europei, tra eresia e ortodossia, estremismo, moderatismo, o perfino sostanziale indifferenza, accettavano una tale filosofia, teoria o scienza anticapitalistica come una necessità naturale.
Oggi però la situazione non è migliore. Il capitalismo, benché in crisi, trionfa in tutto il mondo, anche nei paesi ex comunisti, dove assume le forme più primitive e brutali. Insomma: il capitalismo, reso onnipervasivo e potenziato dalla rete, è tutt’altro che tramontato: è invece sparita o giudicata obsoleta la sola scuola di pensiero che ne avesse fatto materia privilegiata di studio e di critica. A diffamare e liquidare anche gli aspetti più vitali dell’analisi di Marx è stato il comunismo. Sono stati i partiti e i paesi comunisti (nonché qualche terrorista) a trasformare una cultura critica in una dottrina criminosa e totalitaria.
Nel frattempo la filosofia, le culture filosofiche, quando non si limitano all’analisi del linguaggio e allo studio della mente, cadono in caricaturali eclettismi e in restaurazioni esibizionistiche, nonché poco credibili, della tradizione metafisica e teologica. Ormai non solo Marx, anche altri smascheratori di ideologie, come Kierkegaard e Nietzsche, sono oggi disinnescati e messi fuori gioco.
Ricordare Raniero Panzieri e gli anni nei quali il suo “neomarxismo” rappresentò una novità liberatoria richiede oggi uno sforzo di immaginazione. Per qualche tempo, nelle riunioni torinesi di Quaderni rossi i giovani che progettavano di usare Marx come il sociologo fondamentale per capire la classe operaia e la fabbrica, convissero con altri che lo leggevano come il teorico che garantiva carattere rivoluzionario a ogni comportamento operaio privo di mediazioni sindacali e partitiche. Da un lato l’empirismo dell’inchiesta per definire le modalità della lotta, dall’altro le nude e rigorose deduzioni teoriche secondo cui era comunque giusta ogni forma di lotta spontanea.
Le opzioni e le discussioni di allora, che hanno continuato a dividere per vent’anni la sinistra nata negli anni Sessanta, sono ormai così remote che qualcuno farà fatica a capirle e magari le vedrà come varianti di un comune “operaismo”. Il saggio di Pianciola ricostruisce con chiarezza la situazione culturale e politica in cui Panzieri emerse come una specie di “Socrate socialista”. Intorno a lui, Tronti e Asor Rosa, Rieser e Salvati, Fortini e Renato Solmi. In appendice al suo saggio, Pianciola aggiunge una piccola antologia di ricordi, testimonianze e giudizi. Asor Rosa nel 2005 scrisse che i Quaderni rossi hanno rappresentato nel 1961 “il momento della rottura del monolitismo della tradizione socialcomunista (…) un dato positivo, anzi quasi miracoloso tenendo conto della gabbia molto forte che, non solo culturalmente ma anche organizzativamente, quella tradizione possedeva”.
Fofi nel 1988 scriveva che “troppe cose sono cambiate perché quelle dispute possano sembrare ancora attuali. Il proletariato di fabbrica, la ‘classe’ (…) ha lottato per il benessere, e non per il socialismo; la società vede oggi composizioni corporative cui rispondono interessi diversi mediati dalla politica e dai sindacati; la prepotenza dei mezzi di comunicazione di massa ha inverato molte previsioni orwelliane, anche se non nei termini di ‘1984’ (…) la massima internazionalizzazione di un capitale sempre più finanziario; le nuove tecnologie e la rivoluzione elettronica e computeristica; il fallimento dei movimenti o il loro recupero. (…) Sono tutti elementi di una trasformazione rapida e allora, nei primi anni sessanta, imprevedibile”.
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