La Francia del 1959 (in gonna) delizia Venezia con eufemismi d'epoca. Commenti da farsela sotto su Bogdanovich
Un finale basta, in un film. Anche nel nuovo capolavoro annunciato del cinema d’autore italiano. ‘Ndrangheta, a Africo, tra pastorizia, spaccio e connection internazionali: già siamo in zona “come si fa a parlarne male”. L’America non si batte! Più avanti il perché. E’ agevole ma un po’ inquietante la riduzione delle presenze al Lido, anche se aumentano gli arrivi per il fine settimana; ma come ha detto un depresso ristoratore: “Anche i parchi gioco si riempiono nel weekend”.
99 HOMES di Ramin Bahrani (concorso)
Le scene sono insistite ma dei dettagli tecnici qualcosa sfugge. Tranne le parole “foreclosure” (pignoramento) e “eviction” (sfratto). Capita a Andrew Garfield, operaio che abita con sua madre Laura Dern e suo figlio ragazzino, in ritardo con le rate del mutuo. Il regista, iraniano della Carolina, ha una passione per i messaggi e le scene madri. Dovrebbe imparare piuttosto a dirigere gli attori: l’ex Spider-Man fa tante smorfie che non si può guardare.
ANIME NERE di Francesco Munzi (concorso)
Un finale basta, in un film. Anche nel nuovo capolavoro annunciato del cinema d’autore italiano. ‘Ndrangheta, a Africo, tra pastorizia, spaccio e connection internazionali: già siamo in zona “come si fa a parlarne male”. Le colpe o le innocenze dei padri ricadono sui figli, i summit si tengono in cantina, gli sprovveduti cercano di fregare i furbi. Pare che il dialetto sia impeccabile – riferiamo i giudizi dei parlanti nativi. E il rigore che volta le spalle allo spettatore paga meglio di qualsiasi altro delitto.
REALITY di Quentin Dupieux (Orizzonti)
Dal regista di film su uno pneumatico assassino – “Rubber”, così astuto che sospendiamo subito l’incredulità – non può arrivare nulla di normale. Qui abbiamo un copione con televisori assassini, una bambina chiamata “Reality”, la caccia all’urlo più spaventoso nella storia del cinema (Hitchcock faceva pugnalare meloni e angurie per le coltellate di “Psycho”). Shakerare e servire: è stuzzicante e non impegna.
MITA TOVA (THE FAREWELL PARTY) di Sharon Maymon e Tal Granit (Giornate degli autori)
Se ti aiutano a morire è omicidio. Da qui l’idea di un marchingegno che sfrutta il timer di shabbat. Accade in un ospizio israeliano, appena si sparge la voce sono molti i pretendenti. Tema da dibattito, alleggerito – non troppo, ma la direzione era giusta – da gag: l’amante nell’armadio (son due maschi, si rotolano nel lettuccio della casa di riposo), un nude party con spinelli per consolare l’amica con l’Alzheimer scesa senza vestiti a colazione.
LES NUITS D’ÉTÉ di Mario Fanfani (Giornate degli autori)
Vade retro drag queen: qui ci si traveste da signora borghese con golfino pastello, sopragolfino e filo di perle. Fate conto, Guillaume Gallienne in “Tutto sua madre”. Siamo nella Francia del 1959, il notaio si mette la gonna in campagna mentre la moglie Jeanne Balibar (sempre spigolosa, meno antipatica che nei film d’arte) prepara un discorso sui giovani combattenti in Algeria. Da una storia vera, con un gustoso repertorio degli insulti e degli eufemismi d’epoca e l’immancabile opera lirica.
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L’America non si batte! Più avanti il perché. E’ agevole ma un po’ inquietante la riduzione delle presenze al Lido, anche se aumentano gli arrivi per il fine settimana; ma come ha detto un depresso ristoratore: “Anche i parchi gioco si riempiono nel weekend”. Non ne parliamo poi delle attività collaterali: eventi, party, presentazioni, i cui comunicati stampa in altri tempi riempivano il casellario. Se non si svuotava tre volte al giorno, veniva la borsite alla spalla per il carico. Ora anche se si apre ogni due giorni il raccolto è scarsino. Certo che c’entra la crisi, è ovvio, ma il dubbio che incida un po’ la torinese voglia di discrezione e bonton c’è; al festival di Torino si vantano di non avere il Red Carpet. Siamo comunque di buon umore poiché il calice per nosy quadrupedi è sempre overflowing, e i pochi malumori evaporano subito. Siamo passati al baracchino – pardon, “beach pavilion” di Ciak, di uno chic degno del rinomato Southwest Style (Taos, New Mexico ne è la capitale): colori del deserto, tessuti naturali ruvidi, pareti e pavimento di legno, tappeti e wall-hangings etnici, sdrai chic di canapa. Accolte con prosecco e patatine Pata (sponsor) dall’imbattibile Viviana Gandini, braccio destro di Piera Detassis, e da Silvia Garnero, spiritosa braccino destro dell’editore, ci siamo beati di un raro happy hour sul mare e un photoshoot con una dolce diva. All’ombra del capanno Cristiana Capotondi posava in abito lungo di chiffon off-the-shoulder, fantasia floreale rosa antico e nero, capelli biondo-scuro lunghi, disordinati ad arte. L’attrice viso d’angelo è nella giuria di Soundtrack Italia, che premierà la migliore colonna sonora del festival. Intanto Gandini esaltava la liberazione da carpe e oche aggressive a Segrate, casa dell’ex editore Mondadori. “I capi ai piani alti non si facevano mai vedere da noi nell’open space. Che gusto potersi confrontare ogni giorno con l’editore, per non parlare della gioia di stare in centro”. E ora “Yankee Come Here!” Dopo lo sballo di “Birdman”, film elettrizzanti non si sono visti, e poi è arrivato Bogey. Non Bogart ma un risorto Peter Bogdanovich. Era dal brutale assassinio della compagna Dorothy Stratten nel 1980, l’attrice e modella ventenne, che non girava un film dei suoi (“The Last Picture Show”, “At Long Last Love”, “Daily Miller”) “They All Laughed”, uno dei film preferiti di Quentin Tarantino, soffrì per la pubblicità negativa per l’orrendo massacro della Stratten (incaprettata e torturata dall’ex marito, poi suicida) prima dell’uscita in sala. All’uscita dal suo “She’s Funny That Way” (Fuori Concorso) origliamo all’uscita dell’anteprima: “Quasi mi facevo la pipì sotto dal ridere; è meglio di Woody Allen, che fa radio con le immagini. Bogdanovich fa cinema!”
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