Non pregate con chi vi decapita
Caro Andrea Riccardi, per difendere i cristiani d’oriente è indispensabile iniziare a capire quel che è avvenuto nel mondo musulmano negli ultimi decenni.
Caro Andrea Riccardi, per difendere i cristiani d’oriente è indispensabile iniziare a capire quel che è avvenuto nel mondo musulmano negli ultimi decenni. Non disperdersi – come tu hai fatto ieri con la tua pur bella testimonianza sul Foglio – nei pericolosi meandri della geopolitica e nei miti sulle conseguenze dell’invasione dell’Iraq del 2003. Anche a costo di capovolgere la strategia verso il mondo musulmano – alta, affascinante, ma dagli esiti nulli – seguita sinora da Sant’Egidio e tanti altri nell’ambito cristiano. E’ indispensabile prendere atto che è tempo non più – non più solo – della ricerca del dialogo con i musulmani affini (spesso ininfluenti come gli ottimi ismailiti). Di fronte ai massacri di cristiani, sciiti e Yazidi del Califfato si impone la presa d’atto, la denuncia e il contrasto attivo degli scismi aggressivi e totalitari che caratterizzano l’islam contemporaneo. Scismi che dichiaratamente menano una “guerra di civiltà” contro ebrei e cristiani, nel nome di un jihad apocalittico che convince più menti di musulmani di quante non ne abbia convinto il dialogo interreligioso post conciliare.
Di questo devi, dovete, dobbiamo prendere atto. Le preghiere in comune, nel campo musulmano nulla hanno prodotto. Tranne illusioni. Ammettilo, ammettetelo, con la franchezza lucida e coraggiosa di tutta la vostra opera e testimonianza. Da qui ripartite, ripartiamo, per un’operazione di comprensione e di verità indispensabile per impostare una strategia di difesa dei cristiani d’oriente (e degli ebrei, degli Yazidi, degli stessi sciiti) che metta a fuoco le origini del pensiero totalitario che oggi allarga a dismisura la sua forza nel mondo musulmano.
Il Califfato – va capito – non è una buffonata che ha spazio a causa del 2003 di Bush. Né ha senso proporre quella data come origine del disastro dei cristiani, come tu fai. La prova? Boko Haram a mille e mille miglia di distanza, in una Nigeria in cui mai gli Usa hanno messo bocca, segue lo stesso percorso di morte – innanzitutto dei cristiani – e inneggia al suo califfo nero.
Non la cronaca, ma una profonda trasformazione di parte dell’islam in nostro avversario nel nome di un nuovo totalitarismo che ottiene consensi popolari straordinari sono il tema dell’oggi.
Tutto quanto avviene è prodotto non dalla geopolitica, che tu ripercorri con inerziale pigrizia anti bushiana (che mi stupisce in te), ma dalla forza intrinseca – ahimè – che ha via via assunto lo scisma dentro l’islam iniziato con la rivolta del 1928-’29 degli Ikhwan (Fratelli) sauditi. Uno scisma dentro lo scisma wahabita. Uno scisma che ha visto un nipote di Ikhwan nel 1979 occupare la moschea della Mecca e che ha trovato nella vittoria degli odiati e apostati sciiti di Khomeini il combustibile per moltiplicarsi e radicarsi. Uno scisma – per apparente paradosso – che ha moltiplicato i suoi effetti dirompenti incrociandosi con lo scisma khomeinista che ha introdotto il “martirio” quasi come “sesto pilastro della fede”, come aspirazione massima, come dovere del musulmano.
Abu Bakr al Baghdadi è l’ultimo prodotto della rivolta degli Ikhwan che nel 1929 si ribellarono in nome della purezza wahabita ad Abdulaziz Ibn Saud, che con la loro forza avevano intronato a Riad. Da quella rivolta degli Ikhwan al Banna prende l’avvio per la sua Fratellanza. Da questa contiguità non solo lessicale iniziano i problemi dell’oggi.
Sayyid Qutb, venti anni dopo la sconfitta degli Ikhwan, ha definito la “teoria del jihad”, di cui fu prima vittima Anwar al Sadat, che fece la pace con gli ebrei. Teoria del jihad che da anni dà spessore, convince, attrae persino giovani europei.
Mentre Sant’Egidio lavorava al dialogo interreligioso, la massa critica dei seguaci di questo pensiero totalitario si è moltiplicata in misura geometrica. Ma gli stessi vostri interlocutori, pur condannandola – a volte – a parole non sapevano – non volevano – contrastarla alle radici. La ragione era ed è chiara: per sgretolare il pensiero totalitario strutturato da Sayyid Qutb sono necessarie le armi della esegesi coranica. Che l’islam, che i musulmani tutti (quasi), anche quelli con cui voi avete dialogato, rigettano come satanica. Perché molti di quelli con cui avete dialogato – mi spiace ricordarlo, ma è il momento di farlo – approvavano in pieno l’impiccagione, basata su una fatwa della “moderata” al Azhar, a Karthum nel 1985, del teologo Mohammed Taha che propugnava, appunto, la necessità di esegesi del Corano.
Non si può, lo sai bene, riferirsi a Ratisbona di Benedetto XVI senza rendere omaggio pubblico a chi per quelle stesse parole pagò il prezzo della forca. E se l’omaggio a Taha allontana tanti – quasi tutti – i dialoganti musulmani di Sant’Egidio, tanto meglio. Non si dialoga senza la chiarezza. Non si dialoga con le omissioni. Questo è il punto.
Oggi, se non ci dotiamo di strumenti che ci permettano di mettere a fuoco la dinamica del consenso al jihadismo, se non ne comprendiamo la scabrosa contiguità con l’ortodossia islamica, se non incalziamo i musulmani non solo a denunciare i jihadisti, ma a combattere per difendere cristiani ed ebrei (sì, ebrei) prima ancora che con le armi, con la dottrina, falliremo.
Il travaglio della questione della “guerra giusta” non può essere costretto nella contingenza drammatica della questione umanitaria (ovviamente cogente). Né si può continuare, come fanno tanti, troppi cardinali, a citare i tanti musulmani moderati, per relativizzare la forza e l’espansione nelle coscienze dei tanti musulmani jihadisti.
La “guerra giusta” deve essere oggi iniziata non solo per difendere le vittime del jihadismo, ma anche e insieme per chiedere con forza e finalmente ai musulmani di recedere dai capisaldi dogmatici a cui attingono i jihadisti. A iniziare dalla richiesta, a gran voce, qui e subito, della libertà di culto e di conversione dall’islam ad altra fede che in tutti i paesi dell’islam è punita, anche con la morte.
Come ben sai, nella condanna shariatica della conversione – che coinvolge tutti i musulmani moderati – sono contenuti tutti i princìpi di fede e dogmatici dell’islam a cui attingono le perversioni jihadiste. Non si può dialogare con il mondo islamico, e neanche combattere il jihadismo, se non si contrasta l’ossessione musulmana per la apostasia che li accomuna. Il feroce e perverso rito abramitico di cui è stato vittima Foley qui ha la sua genesi, la sua spaventosa profondità liturgica e di fede. Questo va compreso, non terrorismo, ma l’oscena rappresentazione di un Abramo che non sente la voce di Dio e sgozza il suo Isacco-cristiano.
Contrastare i jihadisti, senza combattere frontalmente, ad alta voce, in ogni occasione pubblica e privata, per la piena libertà di culto e di conversione in tutti i paesi musulmani, qui e subito, sarebbe un errore imperdonabile. E’ questo il baricentro, il dogma di fede che unisce jihadisti e “moderati”. La differenza è solo nei modi di applicazione. La crocifissione per i primi (peraltro prescritta da un Corano non interpretato, Sura quinta, versetto 33), la morte civile, la prigione o la forca per gli altri. Il nesso è chiaro e ineludibile. E’ un a priori indispensabile, con fermezza, a ogni dialogo, a ogni preghiera in comune. E francamente – ammirandovi – mi sono sempre chiesto perché l’avete sempre eluso.
Il Foglio sportivo - in corpore sano