Generazione slow web
Prendete un fiume. Acqua in perpetuo movimento. E’ sempre lì ma non è mai lo stesso. Erick Schonfeld fu il primo a utilizzare la definizione di stream – fiume, corrente – per spiegare come internet stesse cominciando a essere usato e considerato dagli utenti.
Prendete un fiume. Acqua in perpetuo movimento. E’ sempre lì ma non è mai lo stesso. Non si fa in tempo a volgere lo sguardo per un istante, e già la corrente è altrove. Inutile inseguirla con gli occhi, o correndo sull’argine, sfugge. Così come ingenuo sarebbe cercare di intuirne l’inizio guardando da dove la corrente arriva, “scrollando” con lo sguardo verso la sorgente. Inutile, il fiume sfugge al nostro cercare di afferrarlo. Un orizzonte liquido semovente. C’è sempre altra acqua in arrivo, così come c’è sempre altro orizzonte davanti a noi, per quanto si corra veloce e si guardi lontano.
In un articolo del maggio 2009 pubblicato sul sito di tecnologia TechCrunch, Erick Schonfeld fu il primo a utilizzare la definizione di stream – fiume, corrente – per spiegare come internet stesse cominciando a essere usato e considerato dagli utenti. Un flusso ininterrotto di notizie, link, video, foto, commenti, insulti, mi piace che hanno come come unico criterio organizzativo quello cronologico. L’inglese ha un termine difficilmente traducibile con la stessa efficacia, nowness, e sta a indicare l’adesso, l’istante in cui qualcosa si verifica. Internet come un fiume, in cui vediamo soltanto l’ultima cosa trascinata dalla corrente, per poi perderla dopo pochi istanti, distratti da un nuovo detrito trasportato a valle dall’acqua del web. L’unico criterio è l’istante, la nowness: quello che vedo davanti a me non è per forza utile o interessante, ma semplicemente ciò che è stato pubblicato adesso. Da allora internet e i social network hanno vissuto con questa logica, e noi con loro. Nel frattempo, però, sono anche cresciuti, e noi con loro.
Verso la fine dell’anno scorso Alexis C. Madrigal scrisse sull’Atlantic che il 2013 era stato l’anno in cui la corrente aveva raggiunto il suo culmine. “Il flusso è divertente e veloce – scriveva il vicedirettore del mensile americano – ma non vi manca un po’ il senso della fine?”. Noi, creature finite, abbiamo a che fare con qualcosa di continuamente non-finito. Sempre più incapaci di giudicare, abbiamo preferito la meno impegnativa nowness per gerarchizzare letture e attenzione, divisi tra la convinzione che la cosa interessante da leggere sia appena uno scroll più in là e la paura di esserci persi qualcosa di decisivo. La rete è diventata così un grottesco già e non ancora che ha cominciato a stancarci. “Quello che ci eccitava nel 2009 – scriveva ancora Madrigal – nel 2013 ci appesantisce”. L’esperienza è comune a chiunque navighi un po’ su internet e frequenti i social network per cercare informazioni e spunti. Controlliamo compulsivamente i nostri smartphone per vedere se qualcuno ha messo un like al nostro status o alle nostre ultime foto, mettiamo noi stessi like a caso per dare un senso al nostro esistere digitale (“Ehi, ci sono anche io, ti penso e trovo che quella foto di te al mare sia una figata”) e perché ci costa poco sforzo; scorriamo con gli occhi e il dito la timeline di Twitter per vedere se qualcuno ha dato la notizia del giorno, se ci siamo persi una battuta fulminante, una polemica sterile o qualche articolo strepitoso.
Il flusso funziona perché è continuo, incasinato e folle come la vita, dice Madrigal. Ha questo nucleo di verità per cui è difficile immaginare che la gente lo possa abbandonare. “Il flusso è l’unica cosa che sembra dare a internet una presenza, quell’aura di autenticità che gli oggetti fisici possiedono naturalmente”, la nowness consegna al nostro sguardo la presenza degli altri allo stesso modo in cui la percepiamo passando su una soprelevata in auto e guardiamo fuori dal finestrino le altre persone. E’ un pensiero rassicurante che ci fa dire: “Le cose succedono, non sono da solo”. Grazie al flusso continuo riusciamo a leggere cose che magari il nostro giornale di riferimento non scrive, assaporando una libertà che presto si è trasformata in nuova costrizione, concludeva Madrigal: il flusso ha portato compulsione e un tipo di controllo che risponde a due parole d’ordine: “più veloce” e “ancora di più”.
Costretti a vivere accanto a questo fiume in piena inarrestabile, abbiamo cominciato a immergerci nel flusso per cercare di non perderci nulla, illudendoci che fosse possibile: mettiamo like sotto i post dei nostri amici senza averli letti, retwittiamo segnalazioni di articoli certamente interessanti ma che non avremo mai il tempo di leggere fino in fondo, mettiamo da parte link a commenti e analisi che si accumuleranno fino a che non verranno cancellati per far spazio ad altri spunti che faranno la stessa fine. Nel flusso tutto sembra imperdibile e bellissimo, decisivo e definitivo. Ma non facciamo in tempo ad afferrare una cosa che subito dobbiamo liberare le mani per pescarne un’altra. E quando con un like o una stellina pensiamo di averli salvati depositandoli all’asciutto sulla riva, in realtà non facciamo altro che immergerli in un flusso parallelo, che si getterà in quello principale poco più in là.
“A noi piacciono le segnalazioni di contenuti interessanti fatte da persone di cui ci fidiamo, ma non riusciamo a tenerne il passo, ci sentiamo costantemente distratti, e siamo sempre più consapevoli di come la nowness sia un criterio di valore inadeguato”. A scrivere queste parole, il 18 agosto scorso, è stato Andrew Golis, che per l’editore Atlantic media sta sviluppando un social network per “tentare di ribellarsi al flusso”. Il social network si chiama This., e permette agli utenti di segnalare un solo link al giorno, costringendo gli utenti a fermarsi a pensare che cosa vale veramente la pena di condividere con gli altri.
L’idea a Golis è venuta partendo dall’esperienza di impotenza quotidiana di fronte al flusso del web. This. non è pensato per essere un social network da consultare durante le pause della giornata lavorativa, ma per essere aperto la sera, quando ci si sdraia sul divano o ci si appoggia allo schienale della poltrona. Come una volta a quell’ora si sfogliava un magazine, l’idea di Golis è che oggi si legga qualche articolo consigliato dagli amici su This. Pochi e ben selezionati. Un lungo articolo sul sito del Nieman Journalism Lab qualche giorno fa riportava i commenti più che positivi dei primi utenti (This. è ancora in versione beta, a invito, e Golis ha promesso novità a breve). E’ difficile immaginare un successo di massa per un’idea come This., ma senza dubbio questo esperimento può essere letto come un ulteriore segnale di quello che ancora Madrigal, in un’altra occasione, ha definito una “tendenza a rallentare internet” sempre più ampia. Una Slow Food della rete, un movimento Slow Web che cresce con il passare del tempo.
Anche i siti internet di informazione hanno recepito questa tendenza: negli ultimi tempi hanno pulito la grafica delle pagine interne dando più importanza al testo degli articoli, cominciato a togliere finestre e riquadri laterali inutili, restringendo gli spazi delle pubblicità e aggiungendo bianco ai lati. “Il messaggio al lettore è chiaro – commentava Madrigal – Non c’è nient’altro da leggere se non questo post. Fermati pure su questa roccia che affiora dalla corrente”.
Ma forse l’esempio più clamoroso di questa tendenza Slow Web è la nuova vita delle email. All’epoca della nascita del concetto di flusso, nel 2009, in molti spiegavano che per la posta eletronica era finita un’èra, e che per le email la fine fosse ormai vicina. Cinque anni dopo pare che la notizia della morte di questa forma di comunicazione fosse fortemente esagerata, come scriveva (ultimo di una lunga serie) David Carr sul New York Times qualche settimana fa. Il fatto paradossale è che la email è sopravvissuta al proprio funerale in una delle forme più bollite degli ultimi anni: la newsletter.
Parecchi digital editor frettolosi avevano archiviato l’esperimento delle newsletter con la stessa leggerezza con cui sono state archiviate negli anni le cabine telefoniche. Nel flusso, appunto, erano diventate superflue, inutili, spam. Perché mai un utente dovrebbe leggersi sulla posta elettronica notizie e commenti che ha già visto su Twitter, Facebook e le app dei giornali? Perché in realtà quelle notizie e quei commenti ormai si perdono nel flusso. Non è un caso se negli ultimi tempi si è assistito a un ritorno fortunato delle newsletter: dalla più famosa di tutte, Playbook di Mike Allen, a esperimenti riusciti e in crescita come Quartz, passando per il redivivo Newsweek con Today in Tabs.
“Bloomberg, Fast Company, il New York Times, Politico e molte altre compagnie editoriali – scrive Carr – stanno scoprendo che possono ottenere attenzione, e lettori, nella casella di posta”. Come è possibile?, si chiede l’editorialista americano. “Con i social media, le applicazioni per smartphone e i siti web dinamici che praticamente spiano il lettore, come può realmente funzionare una cosa che a volte viene bloccata da un filtro anti-spam?”. Le newsletter vengono aperte, osserva Carr, perché i lettori si sono stancati del flusso infinito di informazioni su Internet, “e avere qualcosa di finito e riconoscibile nella tua casella di posta mette ordine a tutto quel caos”. Carr ironizza, e la sua spiegazione valga anche a parziale scusante per questa pagina: “In realtà, il ritorno delle newsletter via email era già stato raccontato da Fast Company, Atlantic e Medium, ma io mi ero perso questi articoli, anche perché, diciamolo, chi riesce a star dietro a un flusso infinito di contenuti?”. E’ in quel vuoto che le newsletter via email, conclude Carr, si inseriscono, portando al lettore aggregazione e sintesi di notizie. Per capire la dimensione di questa resurrezione, basta guardare i numeri di MailChimp, servizio online che permette di inviare email a migliaia di indirizzi in contemporanea: gli utenti aumentano di 10.000 al giorno, scrive ancora Carr, e ogni giorno dai server di MailChimp partono 400 milioni di email. L’email, poi, ha un grande vantaggio: a un certo punto finisce.
Che si debba cercare quantomeno di ripulire il flusso, se non proprio rallentarlo, se ne è accorta pure Facebook, il social network fondato da Mark Zuckerberg che è stato ed è tra i principali affluenti del fiume di foto, video, link e notizie che affliggono la nostra nowness. Chiunque abbia un account Facebook e qualche centinaio di “amici” si trova ormai la bacheca invasa di link ad articoli di siti semisconosciuti con titoli ambigui, incompleti e ingannevoli, secondo la cosiddetta tecnica del click-baiting (bait vuol dire esca): i “non ci crederai mai…”, “nessun giornale ne ha parlato, fate girare”, “guardate che cosa è successo…”, invogliano anche gli utenti più esperti a cliccare. Quasi sempre però portano a non-notizie che al lettore interessano poco o niente, facendogli perdere tempo e sommergendo in un mare di spazzartura i pochi link utili condivisi dagli amici. Qualche giorno fa in un post ufficiale il ricercatore Khalid El-Arini e il product specialist Joyce Tang di Facebook hanno annunciato alcuni miglioramenti per contenere e penalizzare il click-baiting e rendere più visibili agli utenti i link interessanti. Ma con quale criterio Facebook deciderà cosa è più interessante per noi? Monitorando il tempo che si passa sulla pagina: se pochi secondi dopo aver cliccato su un link l’utente torna su Facebook, probabilmente questo significa che non lo ha trovato particolarmente interessante. Lo stesso se non lo condivide, commenta o non lo ritiene degno nemmeno di un like. In questo modo Facebook poco per volta farà scomparire dalle nostre bacheche tutti quei link che l’algoritmo riterrà inutili, ripulendo così la nostra timeline e facendoci perdere meno tempo a cercare qualcosa di interessante per noi. “Per Facebook non c’è un immediato ritorno economico – ha spiegato all’Ansa l’esperto di social media Vincenzo Cosenza – ma piuttosto una sorta di ecologia dell’ambiente: dalle indagini interne hanno capito che se il social network si degrada con notizie facili e leggere gli utenti scappano. E meno utenti equivale e meno guadagni”.
Facebook viene così in soccorso di utenti che però nel frattempo hanno saputo costruire autodifese adeguate, spesso proprio per evitare di annegare nel flusso. “Per inquadrare la questione occorre innanzitutto distinguere tra la dimensione informativa che la rete ha e la parte social”, ci dice Giovanni Boccia Artieri, professore ordinario presso la facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, dove insegna Sociologia dei new media e Internet Studies e Comunicazione pubblicitaria e linguaggi mediali. Notizie e informazioni sono ancora immerse nel flusso, spiega Boccia Artieri, ma è pur vero che “cerchiamo strategie alternative per sottrarre qualcosa al flusso, ad esempio utilizzando strumenti come Pocket, che salvano gli articoli per poterli leggere dopo, anche se il rischio è quello di accumulare link che poi non rileggi”. Negli ultimi anni le attivività social si sono invece spostate sui servizi di messaging (un esempio su tutti: WhatsApp), spiega ancora Boccia Artieri, tanto che Facebook ha spacchettato la funzione messenger, facendolo diventare una app a parte, “togliendola dal flusso”. Come coordinatore del progetto nazionale “Relazioni sociali ed identità in Rete: vissuti e narrazioni degli italiani nei siti di social network”, Boccia Artieri in questi anni ha indagato il comportamento degli utenti italiani su Facebook, scoprendo che l’utilizzo del social network più famoso del mondo è cambiato, diventando più consapevole e meno immerso nel flusso: come si può leggere sul sito di Social Network Studies Italia, il comportamento degli utenti è passato dall’essere “esibizionistico, poco attento alla privacy, superproduttivo” a essere più riflessivo, “attraverso una riduzione dei contenuti prodotti, o attraverso una riduzione delle reti (mediante la cancellazione di friends e la restrizione nelle logiche di ampliamento della rete) o attraverso funzionalità che consentano un uso ‘meno pubblico’ di Facebook”.
“Ci siamo riabituati a gestire il flusso – dice ancora Boccia Artieri – C’è un uso della rete che sembra essere più consapevole”. Non ci si immerge più nella corrente, al massimo “si surfa: l’utente è meno ingenuo, quindi sta consapevolmente sulla superficie. Non è un perdersi, è più un piacere come lo zapping in tv: ho tempo e voglio divertirmi senza impegnarmi troppo e allora non metto un film, ma cambio canale in continuazione fermandomi poco su ognuno, magari guardando anche cinque minuti di televendita”, che è come cliccare su un link-esca.
Siamo noi utenti i primi a voler rallentare il flusso, dunque, e più tempo passiamo su internet o sui social network più siamo in grado di costruirci barriere utili a questo. Boccia Artieri fa un esempio: “Un ragazzino di undici anni che entra su WhatsApp e scopre che ci sono anche tutti i suoi compagni di classe crea subito una chat di gruppo con loro e non si fa problemi a condividere tutto e far vedere quando si connette. Solo crescendo comincia ad essere più consapevole”, a cambiare le impostazioni sulla privacy e a condividere meno informazioni. Lo stesso vale sui social network: più passa il tempo più tendiamo a selezionare informazioni, commenti e condivisioni, forse illudendoci che in questo modo si riesca a uscire dal flusso, e che qualcosa di quello che ci piace davvero possa non perdersi nella corrente infinita.
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