La pazzesca e desolata terrazza di Jep Gambardella nella “Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, rapace e immensa e pur asfittica, schiantata sul Colosseo

Luci spente in terrazza

Stefano Di Michele

E’ soprattutto un’ascesa, la terrazza, che poi drammaticamente e socialmente e culturalmente nei decenni si è fusa e confusa con l’attico, e nel dentro e fuori, sul confine della porta-finestra – pardon! permesso? – si è fusa col salotto stesso: più nessun obbligo logistico-catastale.

E’ soprattutto un’ascesa, la terrazza (che poi drammaticamente e socialmente e culturalmente nei decenni si è fusa e confusa con l’attico, e nel dentro e fuori, sul confine della porta-finestra – pardon! permesso? – si è fusa col salotto stesso: più nessun obbligo logistico-catastale). Perciò è pure fatica, la terrazza, è salita, è arrampicata. Scuola di formazione, scuola di rieducazione, scuola di valutazione. Solo un teatro, sempre una scena. E così quasi ogni immagine del pianeta lassù, verso la sommità del palazzo, spesso rimanda al transito di femmine incise e ricucite, gonfie come pompetta di pressione, ciambella emorroidale di buon sollievo e discreto nascondimento; passaggio di maschi dalla pancia che sobbalza, omo de panza omo de sostanza, abbronzatura che cola, vocianti – il pensoso col tweed o la flanella, il godurioso col blazer (al peggio, coi bottoni dorati), tra l’opera di Citto Maselli e quella dei fratelli Vanzina. Il bicchiere di prosecco è il punto esatto di equilibrio del tutto, coordinato con l’oliva sulla sommità dello stecchino e la stentata mozzarellina di bufala. Odore di gelsolmini, deodoranti vari (alcuni pessimi), quello della bresaola – avesse odore la bresaola, chissà, pezzetti di salmone che si arricciano al caldo sopra letto di maionese che ingiallisce. “Caraaaaaa!”. “Caroooooo!”, e il pomodorino pachino scivola a terra, tracima sul vestito il bicchiere di vino biologico, “mavaffanculooo!”. E’ periglio, è zona di guerra, è terreno minato – la terrazza/attico/salotto. Non ci si può nascondere, non esistono trincee – se non la precaria difesa di una pungigliosa cycas sul bordo di sud-est. Qui si sono immolate le meglio storie, i sentimenti più nobili, persino tentativi di redenzione del genere umano tutto (piangente, e sperabilmente insorgente, come il fu sub-comandante or ponente). Ha fatto e detto cosa saggia, perciò, Matteo Renzi, quando ha rivendicato: “Non sono mai stato a cena su una terrazza romana” – soprattutto perché è quello posto dove spesso vai per cenare e ti ritrovi ad essere cena, infine a chiacchiere e sguardi impiccato con “una corda d’oro”, come il Geordie della ballata che aveva rubato sei cervi nel parco del re. Meglio la pizza inscatolata con coca-cola aggregata, due cazzate con gli amici, persino un dvd di “Metello”, persino – con vispa lotta di classe in riva all’Arno. Molto meglio.

 

Che poi, sempre la terrazza – c’è ampia giustificazione – è romana, e quasi sempre a nome di volenterosa e iperattiva padrona di casa intitolata, senza che la stessa, saggiamente, si faccia nemmeno evocativa delle argute adunate presso Madame de Staël o Madame du Deffand. Soprattutto la terrazza è capitolina per ovvie ragioni climatiche, avendo quaggiù sostanza e retorica del ponentino (“prestame er ponentino / più malandrino che c’hai”), vibrano i bianchi gazebo; lassù a Milano zanzare d’assalto fameliche come giacche blu del generale Custer, afa che la puoi mangiare a morsi, se ce la fai a muovere le mascelle, nebbia e gelo per i mesi che restano – dove cazzo vai, in terrazza, che lì fuori è come il deserto di Gobi? Al più, per qualche gravosa incombenza, si avventuri il filippino di casa, repentinamente sbarrandosi la porta finestra alle spalle. Ma a Roma, ecco, è la terrazza che fa la signora, come la signora milanese faceva la prontezza dell’ordinazione (“io ci dico una menta”) per la Cesira di Franca Valeri. E’ prolungamento dell’esistenza stessa, superando in intensità di rapporti sociali e di cure di abbellimento lo smorto tinello o l’ormai insulso tepore della stessa camera da letto. Per decenni la “terrazza romana” è stata ben più che posto d’aria fresca o ridotto per accaniti fumatori – piuttosto quasi luogo dell’anima, immaginario imprescindibile, specie di “ermo colle”, di “foglia riarsa”, di cipressi “alti e schietti” che sempre vanno, senza scampo, “in duplice filar”. Imprescindibile tanto per chi il luogo pratica, quanto per chi il luogo depreca. Ministri e sottosegretari (raramente la caratura è tra le più elevate), giornalisti/e (spesso perfetti/e nella definizione dello sfaccendato terrazzato Jep Gambardella: “La più grande ambizione di Flaubert era scrivere un romanzo sul niente, se ti avesse conosciuta avrebbe avuto un grande spunto”) e scrittori (idem), l’invitato e l’imbucato, il genio e il cretino, il silente e il ciarliero, il cinematografaro e il televisivo – varia umanità si pigia, si incrocia, si saluta, si scambia sudori e odori, si fotte, si sfotte, si dimentica. Fino alla volta successiva – tutti lì, sempre lì, sempre gli stessi: stesse voci, stesse tracce, stessa treccia di mozzarella. Ha (forse ormai aveva) una sua sacralità da ambone, da elevazione sociale, la terrazza. Che certi di destra, più portati al rancio cameratesco, indicavano quale orribile luogo di attruppamento di masse di comunisti di ogni specie e sottorazza, retorici e gozzoviglianti – insieme anno della lotta di classe e annata del Brunello. E la stessa Unità, nel suo inserto satirico, dopo una delle tante sconfitte della sinistra, cominciò a prendere per il culo “l’atticismo militante” dei suoi dirigenti persi tra il profilo del Cupolone e quello del Pantheon, successivamente si associò quello sul Gasometro, causa certi suggestivi e delicatissimi frocismi di Ozpetek – ché tale appunto è la forza evocativa della terrazza romana, perdigiorno e soprattutto perdisera, con orari che più non coincidono (mai coincisero) con quelli della classe operaia (ad avercene, ce ne fosse ancora).

 

E’ concetto vasto, quello di terrazza. Tale, per esempio, si può considerare pure il luogo – specie di asfissiante sottotetto, a dir la verità – dove gli intellettuali scombinati di “Lettera aperta a un giornale della sera” di Maselli trovano adunanza, tra canto e schitarrate, “compagni dai campi e dalle officineeeee / prendete la falce, impugnate il martellooooo”, e pippe mentali sul quesito se la balena che imprigiona Giona sia la Storia, o non sia piuttosto il Partito. E forma definitiva a quell’immaginario diede Ettore Scola con “La terrazza” sua, gli anni Ottanta appena si levavano – terrazza de sinistra senza dubbio alcuno, terrazza che più di sinistra non si potrebbe, persino visivamente, con crisi e drammi e isterie della sinistra stessa, più l’urlo finale del compagno Vittorio Gassman: “Questo implacabile stronzo!”. “Ma di chi parla?”. “Di meeeee! Di meeeee! Non vi voglio più vedere, non vi voglio più sentire, voi siete il mio specchio!”. “Ma che cazzo dice?”. E’ forse in quella fase che avviene il passaggio di senso, di costume, di politica, che favorisce il transito dalla terrazza propriamente detta all’attico – e gli scaffali sullo sfondo non più sostengono pensosi tomi gramsciani, einaudiane enciclopedie, Asor&Rosa&Spriano&Gerratana, piuttosto coppe di tornei di calcetto, ritratti della consorte ossigenata in posa un filino baldraccosa sbracata sul cofano del Suv o foto della barca ormeggiata a bordo mare. Muta l’habitat, muta la fauna – e la potenza mediatica delle gallery (su Dagospia, sui meglio/peggio giornali) ne dà conto: la starlette (per dirla educatamente: s’avanzi, con alta coscia!) caparbia seppur inadatta a ogni opera, ma mica a tutto inadatta, il politico di scarso conio, il monsignore vanitoso (molto romano, questo deambulare prelatizio nei pressi di tartine e sangria), l’invitata rifatta/pompata/rimboccata la cui faccia ha assunto ormai la precisa esatta fisiognomica delle maschere africane/eschimesi/guatemalteche o chissà cosa cazzo sono schierate sulla parete del salone, professori, burocrazia sparsa, baronie universitarie, assistenti servili, radiofonici in massa, pensionati abbronzati che esorcizzano il trapasso. E il cibo, la tartina, la mozzarellina, i rigatoni, le polpettine, i fusilli, la lasagnetta, il tocchetto di parmigiano, la cerasella, la cassatina – lì, proprio lì, tutto si mutò in devastazione, avendo dimenticato i terrazzati/atticati l’ammonimento saggio di Elias Canetti: “Ognuno dovrebbe vedersi mentre mangia”. Così la bocca aperta che accoglie, spalancata come nella testa decapitata di Medusa, otturazione che luccica sul fondo cavo, occhio famelico voltato in alto, rapido, o da annegato riportato a riva, la mano che artiglia, l’assalto al buffet, girovita ampio e cellulite a grappoli schierati a fronteggiare il cameriere, il sugo che cola, la dentatura equina con espressione quasi ragliante – come un disegno di Grosz, meglio (peggio) che un disegno di Grosz… E così, man mano, la confusione e la sovrapposizione tra terrazza e attico si è compiuta, è stata accettata, si è radicata – e mai più sradicata. Per mutarsi nella pazzesca e desolata terrazza di Jep Gambardella nel film di Sorrentino – rapace e immensa e pur asfittica, schiantata e quasi morente sul Colosseo.

 

Molti destini si sono compiuti, su quelle terrazze, tra il bosso e il rampicante e le rose. Esemplare è stata l’ascesa e il declino del compagno Fausto Bertinotti – peraltro pubblicamente lodato avendo sempre ben figurato senza mai farsi sorprendere dai fotografi a bocca spalancata. Ha detto: “Pensavo che la mia vita, la mia giovinezza, la mia storia familiare, le feste a cui ho partecipato potessero immunizzarmi”. Mah. Ecco – le feste. “Ha charme… intelligenza rara… tremendamente colto…”, dicevano le signore, frementi nell’invito. “Sa essere di sinistra ma non fermo, non blindato” – quasi quasi speculare al Vodka Martini di James Bond, che aveva da essere “agitato ma non mescolato”. Lui spiegò così, al Corriere, di tanto meticciato di classe, a futura edificazione di più avanzati rapporti sociali: “La reclusione e il ghetto sono luoghi e scelte contro cui ci battiamo, mi batto da sempre. Una società chiusa, dove ognuno sta nel suo mondo, piace tanto solo ai conservatori”. Democraticamente, Fausto esortava i camerieri: “Datemi del tu”, e quelli giunsero pure a chiamarlo “Faustino” – “delizioso, no?”, a ragione sottolineò la signora Lella sempre conversando col Corriere. E in seguito, quando tutto divenne più difficile, sempre Bertinotti rivendicò e mai rinnegò: “Ovunque sono andato, da solo o con mia moglie, sempre sono rimasto me stesso: un militante del movimento operaio”. Ecco. L’epica bertinottiana – che sfiorò la foresta Lacandona laggiù in Chiapas e l’hibiscus lassù al Gianicolo – è narrazione perfetta dell’avvenuto deragliamento (politico) della terrazza romana. E seppure c’era chi assicurava che “in quei salotti si incontrano imprenditori, manager, intellettuali, lì a volte si capisce dove va il paese” (Antonio Polito) – andando il paese più che altro compatto verso il buffet – sempre un pizzico di diffidenza fu mantenuto, tanto che Massimo D’Alema, dopo essere stato sorpreso a sbocconcellare crostate in casa Letta (pur al chiuso, trattasi nel caso specifico di metafora di terrazza romana planetaria), già nel lontano 1997 ebbe pubblicamente ad avvertire: “Nessuno pensi che in una cena o in una terrazza si riscrive la Costituzione”, pure se le cronache politiche questo azzardato avvio potevano avere: “Quella sera d’estate, in una delle terrazze romane frequentate dai vip della politica e dell’imprenditoria progressista, Massimo D’Alema ne aveva parlato apertamente, ecc. ecc…”. Lì vai, lì ti trovo.

 

Ma il richiamo – nonostante sia zona militarizzata e spesso assediata – resta invincibile. La vista su Trinità dei Monti, per esempio, dal villino di Maria Angiolillo, ha allietato e pasciuto l’intera Prima Repubblica (ed oltre) nostra – e Bruno Vespa, peraltro di suo munito di impegnativo terrazzamento in loco, ne fu l’ideale Balzac nella sequela sua infinita di volumi, nell’epopea di “profumi prorompenti del giardino”, camerieri in apposita livrea simili a “fantasmi operosi e silenti”, “porcellane preziose”, vino versato “rispettosamente” – manco fosse da Messa. E nelle sue cronache viene registrato l’evento epocale – il “comunista” che tra le livree della servitù e la squisita porcellana irruppe: “Quando D’Alema disse buongiorno, nel silenzio di Trinità dei Monti si avvertì nitidamente un rumore: erano gli ultimi calcinacci del muro di Berlino che cadevano sulla politica italiana” – Battista, la prego, vada di là a vedere che cosa è successo! Ma l’arrampicata sempre ispira – fosse mai il posizionamento certificazione pure di elevazione. Nei mesti frangenti, Bersani e i suoi si issarono sul terrazzo del Nazareno – più che terrazzo, a dire il vero, lì si era nell’ambito del tetto: luogo ideale, si capisce, al massimo per avviare certe pratiche di addestramento di piccioni – a far coro sgangherato sul giaguaro da smacchiare. Felicissima visione mica fu. Ma se dal profano al sacro si transita, ecco l’incredibile e mica poco cafona risalita (nel tendersi la mano, nel tenersi in bilico lassù sul vuoto, parevano fuggitivi sul tetto dell’ambasciata Usa all’assalto dell’ultimo elicottero mentre i vietcong irrompono a Saigon), nel dì della santificazione di Roncalli e Wojtyla, di vario e svario e indistinto ammasso di mai sobria e mai doma e mai discreta vipperia sul tetto della Prefettura vaticana – a comunicarsi, a fotografarsi, a chiacchierare, a satollarsi sotto bianchi tendoni e tra bianche tavolate, qualche monsignore a far da badante, stando laggiù in fondo e laggiù in basso, praticamente ai loro piedi, tanto il Papa quanto il presidente della Repubblica e un milione e passa di altri fedeli (giusto i novelli santi, magari, e non è detto, quel giorno sono riusciti ad innalzarsi al di sopra dell’improvvisato, surreale terrazzamento: certo il più memorabile, e al buon cuore renderlo anche presto dimenticabile, degli ultimi decenni). “Roma è così, la terrazza è abituata da sempre a convivere con lo spirituale…” – figurarsi, pure questo per l’occasione si lesse.

 

Se per tanti anni la terrazza è stata (non in maniera del tutto arbitraria) associata alla sinistra, il (de)merito è pure del genio di Tom Wolfe, che nel 1970 rese immortale, con un fenomenale pezzo di 29 pagine sul “New York Magazine” (con memorabile copertina), il party dato nel loro enorme attico a Park Avenue da Leonard e Felicia Bernstein in onore delle fichissime Black Panthers, grrrrrrrr, oh, my God!, neri giganteschi e di sicuro cazzutissimi in giacche di pelle e occhiali neri e acconciature afro, oh, my God, my God, ancora! – danarosissimi liberal (per l’occasione Wolfe inventò i “radical chic”): soldi molti, c’era da raccattar fondi per certe bravate terroristiche, chiacchiere rivoluzionarie moltissime. Ora, pure se la terrazza fu nell’occasione poco praticata – era gennaio, e per quanto il fervore della BCP (Buona Coscienza Progressista) scaldasse non poco l’atmosfera, sempre il gelo l’artrite precedeva – resta lo stesso perfetto evento da terrazza del secolo. Wolfe fu feroce, devastò la supponenza e il senso di superiorità dei convenuti – “chissà che cosa sceglierebbe una Black Panther da questo vassoio di antipasti? Chissà se alle Panther piacciono i bocconcini di Roquefort ricoperti di noci tritate…”, o chissà, magari vanno con gusto rivoluzionario direttamente sulle punte di asparagi alla maionese o sulle polpettine “au Coq Hardi”. Wolfe così sigillò l’immaginario della terrazza chic/liberal/socialist – che gli anni Ottanta, tra riflusso e controlotta di classe, hanno prima fatto incrociare con l’attico, e infine, tanta l’esigenza di salire, col tetto vaticano: dal radical-chic irritante al neo-con splash buzzurro al teo-vip trash comunicato e saziato.

 

Saggio parecchio Renzi a tenersi lontano. Spesso, in quei luoghi si entra protagonista e si finisce comparsa. Oggetto di conversazione e valutazione e sempre finale sottrazione. Prendersi e lasciarsi. Molto praticati i saldi di fine stagione. Prima che le zagare siano di nuovo in fiore, la ruota è girata – solo la tartina resta sempre la stessa, inesorabile, codificata, ammosciata. Come le voci. Le facce no: certe volte, il gran lavorìo del chirurgo plastico può portare il più attento frequentatore a momenti di comprensibile spaesamento – eppure era solo qualche ruga fa, quell’espressione  mi dice qualcosa. Mangia la pizza, Matteo, e #staisereno. Stai. Se rompe i coglioni la margherita, passa ai fiori di zucca, ai funghi porcini. Acciughe. Mettici sopra un po’ di noci tritate, visto mai. Accendi il ventilatore. Mettiti comodo in mutande. Fai un po’ di cyclette, che ti serve. C’è più fresco, lassù, in alto? Forse sì – ma pure il ponentino, guarda, fidati, non è più quello di una volta. Le mozzarelline invece sì, sempre quelle, senza scampo: che palle!

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