La disfatta di Assad a Tabqa
Lo Stato islamico espugna un aeroporto strategico, Damasco porta in salvo soltanto gli ufficiali e lascia centinaia di soldati alla mercé dei tagliateste. Ora la base alawita rumoreggia contro il regime.
Due mesi fa il capo dello Stato islamico, Abu Bakr al Baghdadi, ha nominato un nuovo comandante militare per la provincia di Raqqa, in Siria. Il nuovo emiro (vedi foto sotto) viene da una Repubblica del centro Asia, il Tagikistan, ancora non si conosce il nome ma si sa che fa parte del contingente di combattenti di lingua russa – circa mille – che ha giurato fedeltà a Baghdadi nel novembre 2013.
La nomina è in sé una novità: lo Stato islamico sta cominciando ad affidare i posti di comando a gente venuta dall’esterno, dopo anni in cui soltanto iracheni con anni di militanza interna potevano sperare di arrivare agli incarichi più segreti e delicati attorno al leader al Baghdadi. Ora il comandante militare dell’organizzazione è Omar al Shishani e viene dalla Georgia, e c’è questo nuovo emiro tagiko. Il gruppo sta superando gli anni in cui era soltanto “lo Stato islamico dell’Iraq”.
Il gruppo dei caucasici comprende russi, ceceni e uzbeki (vedi foto sotto). I “ceceni”, come spesso sono chiamati tutti quanti, sono particolarmente temuti dai siriani di Raqqa perché non sentono alcun vincolo di fratellanza araba e con i locali si comportano in modo più duro e punitivo degli altri.
Una notizia non confermata su questo comandante senza nome è apparsa sui media del Pakistan: era un carcerato nella prigione di Dera Ismail Khan, nelle aree tribali del paese asiatico, ma è fuggito nel luglio 2013 assieme ad altre centinaia di detenuti durante una famosa evasione di massa organizzata dai talebani. Poniamo che sia vero: un periodo di detenzione fa parte del curriculum di quasi tutti i volontari del jihad, ma è interessante il fatto che il tagiko non è rimasto nella zona per unirsi ai talebani o ad al Qaida ed è migrato verso ovest in Siria ad arruolarsi nel gruppo di Baghdadi.
Al Baghdadi ha assegnato al comandante tagiko il compito di guidare una campagna di assalti contro le tre rimanenti basi dell’esercito del presidente Bashar el Assad nella provincia di Raqqa: dopo un anno di coabitazione quasi pacifica, che aveva fatto pensare a un tacito accordo di non belligeranza con il regime di Damasco mentre lo Stato islamico dilagava oltre il confine in Iraq, il califfo ha voluto un repulisti militare in casa propria.
Il 25 luglio i combattenti dello Stato islamico hanno conquistato la base della Brigata 17. Il 7 agosto hanno preso la base della Brigata 93. Hanno festeggiato entrambe le volte portando indietro le teste dei soldati di Assad uccisi e infilzandole su una ringhiera di ferro che corre attorno all’aiuola nella piazza principale di Raqqa (vedi foto sotto). Nei palazzi ci sono ristoranti con i tavolini che hanno la vista sulla piazza e non hanno smesso di servire clienti, e quindi c’è questa coabitazione tra la vita che continua a scorrere e le teste esposte come trofei su picche. Ci sono infiniti riferimenti nel passato per questo genere di comportamento. Lo faceva per esempio l’armata ottomana quando, guidata da Solimano il Magnifico, portava l’impero alla sua massima espansione geografica, fino al Danubio e alle porte di Belgrado, nel 1521.
Domenica 24 agosto l’organizzazione di al Baghdadi espugna l’aeroporto militare di al Tabqa. Fonti locali dicono che nell’attacco ha perso almeno 350 uomini, e l’esercito siriano 190. I combattimenti sono durati cinque giorni, il gruppo ha tentato di aprirsi la strada quattro volte con attentati suicidi, secondo una tattica classica che vede un veicolo caricato con tonnellate di esplosivo lanciarsi contro il cancello di entrata e pochi minuti dopo la colonna d’assalto provare a irrompere, sfruttando l’effetto psicologico – lo choc sulle truppe – e quello materiale, il varco nel sistema di difesa. Uno di questi quattro attentatori era un tredicenne. L’esercito di Assad ha tentato la stessa tattica per la prima volta nella storia di questa guerra: un soldato ha guidato un’autobomba verso le linee degli assedianti, nel tentativo di aprire un varco e di guidare una sortita.
La svolta nell’assedio arriva il giorno prima, sabato 23: alcuni cargo Ilyushin Il-76 atterrano dentro la base – sono cinque secondo alcune fonti – portano via gli ufficiali e alcuni soldati fortunati (forse con protezioni in alto), equipaggiamento pesante che non doveva cadere nelle mani del nemico. Nella notte, i soldati abbandonati si trincerano in una sezione ridotta della base. Spunta il sole. Dopo mezzogiorno smettono di combattere e si arrendono in massa.
La caduta di al Tabqa è uno scenario che la teoria militare considera impossibile nelle guerre asimmetriche. Una concentrazione di guerriglieri è un bersaglio ideale. Se negli anni scorsi durante la guerra nel vicino Iraq gli insorti dello Stato islamico, padre minore dell’attuale Califfato, avessero tentato di espugnare un avamposto americano, anche il più isolato e remoto, sarebbe scattato un meccanismo collettivo di difesa: aerei ed elicotteri da guerra sarebbero arrivati a prendere di mira gli assedianti e poi sarebbe arrivata una forza di reazione rapida a bordo di elicotteri a inseguire gli scampati ai bombardamenti. L’emiro tagiko schierava tra i 700 e i mille combattenti attorno alla base.
Sopra l’aeroporto militare di al Tabqa gravava un senso di ineluttabilità, era perduto in mezzo al territorio come un fortino di disperati. Il nemico ha preso le guarnigioni vicine una a una, ha staccato le teste ai prigionieri, e il governo centrale giù a Damasco ha deciso di non fare nulla se non andare a salvare i generali. Tre giorni dopo un ufficiale dell’esercito siriano che ha voluto rimanere anonimo commenta con il Wall Street Journal: “E con questo possiamo pure dire addio alla fiducia nella leadership militare”.
Quando il gruppo di al Baghdadi dilaga dentro l’aeroporto, l’agenzia ufficiale di stato dice che “i soldati hanno eseguito con successo un raggruppamento tattico fuori dalla base”. A Raqqa gli altoparlanti nelle strade annunciano la vittoria, ci sono caroselli, le prime immagini cominciano a circolare quasi in tempo reale su internet. Il numero esatto dei prigionieri non si conosce perché il ministero della Difesa – dopotutto si tratta di una normale manovra tattica per il regime, non di una disfatta – non rilascia numeri, ma si crede che siano più di duecento. Una parte dei militari superstiti è risparmiata, perché alcuni hanno specializzazioni utili (ci sono anche alcuni piloti) e dovranno spiegare ai loro carcerieri come si usa l’equipaggiamento catturato (vedi foto 4). Gli altri, in maggioranza soldati di leva, sono fatti spogliare. Poi la colonna di uomini in mutande che avanza dolorosamente sui sassi nudi è portata nel deserto a qualche chilometro di distanza (vedi foto 5 e 6). Nei video i combattenti che sorvegliano la processione chiamano i prigionieri il gregge e li tormentano con una richiesta standard. “Dawlatul islamiyah?”, chiedono. Lo Stato islamico? “Baqiya”, devono rispondere quelli: resterà.
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La caduta di Tabqa è un’umiliazione nazionale, un disastro al rallentatore a cui il paese assiste incredulo. La base alawita che sopporta il peso della guerra e considera il governo Assad la sola difesa contro l’avanzata dei gruppi estremisti comincia a vacillare: il presidente e i generali potevano ordinare l’evacuazione, potevano organizzare una spedizione di salvataggio, non hanno fatto nulla, hanno salvato gli ufficiali e ha lasciato che la trappola si chiudesse sulle reclute. I media di stato non ne parlano, ma le famiglie sanno, le notizie circolano.
Douraid el Assad, cugino di primo grado del presidente Bashar, una voce importante dentro un clan basato sul grado di parentela, chiede con un messaggio visibile a tutti su internet le dimissioni del ministro della Difesa e del capo di stato maggiore e l’incriminazione per la perdita di centinaia di uomini. Poi il giorno dopo dice di volere dal governo almeno diecimila uomini per creare una linea di difesa davanti a Hama, e proteggere così la capitale degli alawiti, Latakia, sulla costa. Ora che al Tabqa è caduta, lo Stato islamico ha davanti a sé soltanto un tratto disabitato di deserto prima di arrivare, da est, alle porte della regione della Siria abitata dagli alawiti.
Cinque attivisti fedeli al regime fanno partire una campagna sui social media per chiedere un’inchiesta sulla sorte dei soldati persi nelle tre basi – circa mille – e le dimissioni del ministro della Difesa (a cui intanto è stato affibbiato il nomignolo di “ministro della morte”) e di un numero di ufficiali dell’esercito e dell’intelligence responsabili delle sconfitte. L’ufficio stampa del palazzo presidenziale li convince a desistere, con la promessa che quel ministro perderà il posto in un rimpasto e che sarà indagato assieme con gli altri ufficiali. Invece non succede, la promessa non è mantenuta. La polizia segreta arresta i cinque.
Il generale druso Issam Zahreddine è considerato uno dei duri del regime (vedi foto sotto), un mastino del presidente Assad. A lui è affidata la difesa di un altro aeroporto strategico, quello di Deir Ezzor. Al momento di ricevere l’incarico aveva giurato: “Deir Ezzor diventerà la tomba dello Stato islamico. Oppure morirò qui”. Quattro giorni fa, però, il generale vola via da Deir Ezzor e riappare dall’altra parte del paese, a Suwayda, roccaforte drusa a sud di Damasco. C’è anche un altro aeroporto assediato dallo Stato islamico, quello di Kweris, vicino Aleppo. La situazione è la stessa di Tabqa. Soldati trincerati dentro, sporadici rifornimenti via aerea, nessuna promessa di aiuto. L’esercito del governo non ha abbastanza forze per abbandonare gli altri fronti, considerati più importanti.
Su una pagina di fan del generale Maher el Assad appare un manifestino: “Soltanto tu ci puoi proteggere”. Maher è il fratello minore di Bashar, è sempre stato considerato troppo violento per diventare presidente. Come dire: ora Bashar è troppo debole. Il governo reagisce alla pressione come sa: una campagna devastante di bombardamenti sulle province di Aleppo e Idlib, in almeno un caso cade a terra un barile riempito con rifiuti tossici industriali – usato come un’arma chimica rudimentale.
Nel villaggio di al Hunaidi, vicino Latakia, nel cuore dell’enclave alawita, arriva Yousef al Ahmad, capo locale del partito Baath, per fare le sue condoglianze alla famiglia di una recluta uccisa a Raqqa. Durante la veglia funebre, dopo gli slogan patriottici di rito, esorta la gente a cooperare con la difesa della nazione e far arruolare i figli nelle forze volontarie di difesa. Cala il gelo. Un vecchio capofamiglia chiede al politico: quando farai arruolare i tuoi figli, o i tuoi fratelli, così potremmo essere noi i primi a venire da te a farti le condoglianze, e sarete considerati patriottici come noi? Poi comincia a maledire Assad e a coprirlo di insulti, tutti i presenti si uniscono a lui, al Ahmad se la vede brutta, è cacciato dal funerale.
La disfatta si innesta su un risentimento che covava già da prima dentro alla comunità degli alawiti – che in teoria dovrebbe essere la base solida che difende il regime e ne è difesa. All’inizio di agosto nella città costiera di Tartus alcuni alawiti cominciano una campagna clandestina contro il governo che ruota tutta attorno a una sproporzione: un terzo delle perdite sofferte dall’esercito di Assad è costituita da giovani alawiti, anche se gli alawiti non sono più dell’undici per cento della popolazione. La comunità sta pagando un prezzo altissimo in una guerra civile che ha come fine ultimo proteggere il potere famigliare degli Assad. Distribuiscono volantini come questo (vedi foto sotto) su cui c’è scritto: “La sedia a lui, le bare ai nostri ragazzi”. La sedia è il simbolo del potere presidenziale, lui è Bashar el Assad.
I prigionieri in mutande di Tabqa sono fatti marciare dietro un’altura pietrosa, sono fatti sdraiare in colonna, come i soldati caduti in un altro massacro, quello di Tikrit – in Iraq – a giugno. Poi un comandante dello Stato islamico (brigata “al Aqsa”, Gerusalemme) che parla in russo pronuncia un discorso veloce a favore di telecamera. In teoria due settimane fa la leadership dello Stato islamico ha pubblicato un editto in cui si fa divieto di fare video di esecuzioni e poi di pubblicarli. E’ la ragione che spiega perché negli ultimi tre video ufficiali, compresi quelli delle uccisioni dei reporter americani James Foley e Steven Sotloff, la parte della decapitazione non è mai mostrata. Forse il video non doveva uscire su internet, anche se poi è successo: il russo comincia a sparare sulla fila di reclute (vedi foto sotto) e i suoi uomini si uniscono a completare l’esecuzione.
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