“Noi invece crediamo e vogliamo una chiesa di comunione, non di scomunicati”, dice padre Pepe di Paola, cura villero che conosce Bergoglio da quasi vent’anni

Divorziate e comunicatevi

Matteo Matzuzzi

"Noi rispettiamo la gente. Se le persone cercano di comunicarsi, diamo loro la comunione. Non siamo dei giudici che decidono chi si deve comunicare e chi no. Cerchiamo di spiegare che i sacramenti sono per tutti”. Parole di Pepe di Paola, che conosce Bergoglio da vent’anni

Noi rispettiamo la gente. Se le persone cercano di comunicarsi, diamo loro la comunione. Non siamo dei giudici che decidono chi si deve comunicare e chi no. Cerchiamo di avere un linguaggio più propositivo, cerchiamo di parlare dei sacramenti, spieghiamo che i sacramenti sono per tutti”. E il discorso, appunto, vale per ogni individuo: “Quando ci troviamo davanti alle persone che convivono senza essere sposate in chiesa non alziamo barricate, neppure nel caso dei sacramenti e della comunione. Ci opponiamo a quelli che hanno solo precetti”. A parlare è padre Pepe di Paola, cura villero che conosce Bergoglio da quasi vent’anni e che dal Papa oggi regnante è stato rimesso in careggiata, quando aveva deciso di abbandonare il sacerdozio. Delle villas, padre Pepe è oggi un’istituzione, tappa obbligata per chi voglia capire il modello di chiesa di Francesco, plasmato proprio lì, tra le baraccopoli. E anche per comprendere i motivi che hanno spinto il Pontefice, un anno fa, a indire in tutta fretta un Sinodo straordinario sulla famiglia. Di questo evento, che avrà un’appendice tra un anno, stavolta in forma ordinaria, l’ordine del giorno è ricco, ma poi è sempre lì che si va a parare: il riaccostamento ai sacramenti dei divorziati risposati. E’ questo il tema – assai divisivo – su cui più s’è dibattuto ai massimi livelli, teologici e culturali, nell’ultimo anno, e non è un caso se il cardinale argentino Mario Aurelio Poli, successore di Jorge Bergoglio a Buenos Aires, avesse detto già a febbraio che tutto o quasi sarebbe ruotato attorno a quella questione – “ma non sono un futurologo”, aveva poi prudentemente minimizzato la sua previsione. C’è stata la magna relatio del cardinale Walter Kasper su eros e famiglia, ci sono stati gli interventi di teologi “con tre quattro o cinque lauree” sui quali s’è soffermato l’altra mattina Francesco nella sua omelia mattutina. Hanno detto la loro porporati, preti, matrimonialisti e filosofi. Tutti a indagare i confini del dottrinalmente lecito in materia di ostia ai divorziati risposati, per qualcuno in odore di peccato mortale e per altri da sottrarre a quella laguna stagnante di disperazione dove non stenta a giungere la misericordia divina.

 

Poi, per capire come la pensa il Papa, devi andare nella sua terra natale, tra le casupole con tetti di lamiera delle villas miseria, l’enorme baraccopoli che fa da cintura alla capitale argentina. Ce ne sono otto a Baires, senza contare la “Grande” con i suoi cinquantamila abitanti. “Qui la maggior parte delle coppie va direttamente a convivere, senza sposarsi”, dice padre Pepe nel libro “Le pecore di Bergoglio” di Pierfrancesco De Robertis (Emi). Da voi in Europa l’istituzione della famiglia fondata sul matrimonio è in crisi e il numero dei matrimoni è in costante diminuzione, qui è ancora peggio”. Nelle villas miseria, spiega, “il matrimonio religioso non è in cima ai pensieri di tanti. La soluzione è una soltanto: “Avvicinare e non respingere, includere, rendere le coppie partecipi di un progetto, di una comunità, di una casa comune. Queste persone spesso sono fuori dalla chiesa perché fanno scelte diverse dalle nostre, e se tu opponi loro un rifiuto, in particolar modo dei sacramenti, non otterrai niente, semplicemente resteranno fuori”. E Bergoglio, cardinale villero, che ha voluto triplicare il numero di preti attivi nelle baraccopoli, “sa che è così, in Europa, in tutto il mondo e in America latina”. Prospettiva diversa, dice, da “quelli che dicono ‘non si può far questo, non si può far quello’, che non si avvicinano alle persone guardando i singoli casi e usando per prima cosa misericordia. Questa maniera di ragionare – aggiunge di Paola – ha alienato molti fedeli e li ha condotti nelle evangeliche. Noi invece crediamo e vogliamo una chiesa di comunione, non di scomunicati. Se sono prete e scopro che per colpa mia la gente lascia la chiesa di Cristo e va da un’altra parte, sono io che devo correggermi, non chi va via”. Parole che tirano in ballo l’insegnamento cattolico così come tramandato nei secoli, terreno divisivo sul quale i padri sinodali tenteranno per quanto possibile di raggiungere una sintesi. Torna il sospetto che la misericordia sia una sorta di sanatoria, che basti citarla per lavare colpe più o meno gravi, che essa sia slegata da qualunque riferimento o vincolo alla giustizia, come più volte denunciato dal cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della congregazione per la Dottrina della fede – “Al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se si nascondono questi attributi di Dio e non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”, scriveva tempo fa sull’Osservatore Romano.
O, peggio, si potrebbe pensare che ora si aprano le porte a tutti pur di vincere la concorrenza con le chiese che a quelle latitudini vanno forte, spesso a colpi di grandi sponsor, pubblicità e reti televisive ad hoc, come è il caso degli evangelici.

 

Stupidaggini, dice sicuro don Pepe: “Il famoso aggiornamento di Giovanni XXIII è proprio questo. Ci sono esigenze che sono legate al tempo in cui si vive. Non vogliamo seguire il rigore che ha segnato i primi anni del XX secolo, ma applicare il Concilio Vaticano II. Francesco non sta inventando niente, semplicemente applica”. E’ così che la pensa il Papa: “Bergoglio queste dinamiche le conosceva, perché ne parlavamo sempre, ed era cosciente che bisognava promuovere dei cambiamenti. La chiesa deve fare mea culpa, perché alla fine stiamo creando sofferenza a chi vorrebbe far parte a pieno titolo della chiesa, senza sentirsi figlio di un Dio minore”. Pare di sentire il cardinale Walter Kasper, insigne coprotagonista di dotte e alte dispute teologiche con Joseph Ratzinger, che dopo aver esposto al collegio cardinalizio le sue proposte in materia di pastorale familiare, lo scorso marzo, diceva di sentirsi “nella linea di sant’Alfonso de Liguori e di san Tommaso d’Aquino. Quindi mi trovo in buona compagnia”. E comunque, precisava il presidente emerito del Pontificio consiglio per la promozione del dell’unità dei cristiani, la proposta fatta dinanzi ai porporati di quello che un tempo si chiamava Sacro collegio “non è contro la morale, non è contro la dottrina ma piuttosto a favore di un’applicazione realistica della dottrina alla situazione attuale della grande maggioranza degli uomini, e per contribuire alla felicità delle persone”. Questione di adattarsi allo Zeitgeist, dunque, allo spirito del tempo. Nella Mitteleuropa lo chiedono in molti, fedeli e comunità laiche, perfino qualche vescovo: Stephaen Ackermann, rampante vescovo di Treviri, pubblicamente affermava che l’insegnamento della chiesa circa la morale sessuale crea solo confusione, tanto da far sobbalzare il cardinale Carlo Caffarra, che si domandava se fosse “dunque l’occidente il paradigma fondamentale in base al quale la chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto?”, aggiungeva a questo giornale il porporato emiliano davanti ai moniti kasperiani circa le “attese che non possono essere disattese”. “Sono molto perplesso e pensoso – diceva Caffarra – quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Perché non la direzione indicata dalle comunità africane?”.

 

[**Video_box_2**]Il cura villero, però, va oltre, e a suo giudizio ciò che deve cambiare non è solo l’approccio pastorale, ma anche la dottrina. I maquillage non servono a nulla, non basta approfondirla e svilupparla, come teorizzato da Kasper lo scorso inverno: “Serve una sua rifondazione complessiva, perché non ci sono messaggi chiari e tutto va a scatti. Non c’è un’idea di largo respiro. Stiamo negando la comunione a persone divorziate che se potessero adire a un tribunale ecclesiastico otterrebbero la dichiarazione di nullità e si risposerebbero”. Tuttavia, “sappiamo che spesso i tribunali ecclesiastici interpretano i casi in modo leggero ed estremamente soggettivo, e che tutto dipende dalle condizioni economiche di chi accede, dagli avvocati che riesci a pagarti, dalle conoscenze che hai”. E “sappiamo anche che la maggioranza dei matrimoni sono invalidi, perché la gente si è sposata immatura, senza avere piena coscienza di ciò che faceva e del valore del sacramento che aveva chiesto. E su questo punto, grande responsabilità hanno i preti e i vescovi. Criticano noi perché diamo la comunione a quelli che convivono, poi ammettono al sacramento del matrimonio coppie non credenti, che si sposano in chiesa tanto per avere una cerimonia come si deve, una bella basilica piena di fiori, così le fotografie vengono meglio”.

 

La chiesa, osserva padre Pepe, “ha fatto poco per dare alle persone la possibilità di dichiarare nullo il matrimonio e potersi risposare. Così finisce per negare la comunione, e almeno apparentemente chiude lì la questione, negando anche la comprensione e la misericordia”. Il cardinale Müller è di avviso opposto: “Un’ulteriore tendenza a favore dell’ammissione dei divorziati risposati ai sacramenti – scriveva sempre sull’organo ufficiale della Santa Sede – è quella che invoca l’argomento della misericordia. Poiché Gesù stesso ha solidarizzato con i sofferenti donando loro il suo amore misericordioso, la misericordia sarebbe quindi un segno speciale dell’autentica sequela. Questo è vero, ma è un argomento debole in materia teologico-sacramentaria, anche perché tutto l’ordine sacramentale è esattamente opera della misericordia divina e non può essere revocato richiamandosi allo stesso principio che lo sostiene”. Il rischio, aggiungeva il capo dell’ex Sant’Uffizio, è che “attraverso quello che oggettivamente suona come un falso richiamo alla misericordia” si banalizzi “l’immagine stessa di Dio, secondo la quale Dio non potrebbe far altro che perdonare”. Per padre Pepe, è invece possibile mettere insieme misericordia e precetto, basta non essere assillanti e agitare lo spettro del relativismo, che “c’è quando una cosa è uguale all’altra, ha un valore identico all’altra. E’ la stessa cosa uccidere una persona e usare un profilattico? No, non è la stessa cosa. Se poniamo le cose nei loro giusti contesti, siamo relativisti? No, non penso”.

 

E Francesco, “che spesso si affacciava qui”, tra i vicoli non asfaltati delle villas numerate e senza nome, la pensa così, dice il cura: “Credo che questo fronte il Papa dovrà e vorrà aprirlo, per cambiarlo. Almeno mi pare che sia in questo spirito. Perché il discorso dei divorziati, delle coppie, dell’apertura, della misericordia prima dei precetti, rientra pienamente nella sua idea di chiesa. Il suo spirito è questo”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.