Il Nietzsche di Ferraris è una corda tesa tra Woody Allen e Joseph Goebbels, un pendolo che oscilla tra comico e tragico, un povero sofferente che trasfigura la sua condizione in diagnosi epocale

Nietzsche, paura eh?

Adriano Scianca

A 170 anni dalla sua nascita, Ferraris e Onfray riesumano un bricolage filosofico che sa di muffa debole e parigina (Derrida & Co.). Tentativo fallito. Ecco perché.

Che cosa ha veramente detto Nietzsche? Se lo chiedeva, nel 1975, l’intellettuale organico comunista Mazzino Montinari. In realtà non è proprio che se lo chiedesse: il punto interrogativo non c’era affatto e l’orgoglioso avverbio era persino rimarcato in corsivo sulla copertina dell’edizione Ubaldini, prima di scomparire nella riedizione del 1999, presso Adelphi, per dar luogo a un più prudente Che cosa ha detto Nietzsche. Una hybris doppiamente blasfema, visto che riguardava il filosofo che maggiormente aveva attaccato la “volontà di verità” e dato che il testo si poneva al centro di una vasta operazione di intorbidamento delle acque che proprio dalla “veridica” edizione Colli-Montinari prendeva le mosse.

 

Nietzsche e il suo fantasma
Ci sono caduti in molti, nella bufala del Nietzsche sincero democratico. Anche Maurizio Ferraris, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Torino, ci era cascato, sedotto in gioventù dal post strutturalismo a causa delle cattive compagnie (“Lei ha letto i francesi?”, gli aveva chiesto Gianni Vattimo nella primavera del 1975, indirizzandolo alla scoperta di Deleuze, Lyotard, Foucault, Derrida, Klossowski). Nietzsche come grande emancipatore, la realtà come gioco linguistico di interpretazioni confliggenti. Poi un lento rientro nei ranghi di un realismo liberal. L’ha chiamato new realism, scatenando fra i colleghi un dibattito un po’ salottiero ma dai toni surrealisticamente feroci. L’apostasia dal gergo tardo-parigino si è consumata con una doppia resa dei conti, ontologica (no, non esistono solo le interpretazioni, ci sono anche dei fatti oggettivi) e politica (no, Nietzsche e Heidegger non sono quei campioni di democrazia che ci avete voluto far credere). E chi dice il contrario è un berlusconiano, o forse un nazista. I fili di questa inquietudine del pensiero si annodano in “Spettri di Nietzsche” (Guanda, 266 pp., 18 euro), contributo del professore torinese alla festa grande che già si annuncia per l’anniversario nietzscheano di questo autunno (l’autore dello “Zarathustra” è nato il 15 ottobre 1844, giusto 170 anni fa). L’allusione è evidentemente a Jacques Derrida e agli “Spectres de Marx”, titolo di una conferenza alla University of California del filosofo francese, e poi di un libro, entrambi del 1993. L’idea è che ci sia stato un periodo, nella storia europea, in cui sia Nietzsche sia Marx si sono dati in piena presenza, chiamati ad alta voce da istituzioni e regimi che ne hanno fatto, a torto o a ragione, dei maestri e dei fondatori. Quest’epoca si chiude nel 1945 per Nietzsche e nel 1989 per Marx. Dopodiché, entrambi sono ritornati, ma come presenza eterea, sfuggente, fantasmatica (come revenants, appunto). Una presenza debole, che ha fornito il materiale per infiniti bricolage filosofici, in cui intere generazioni di filosofi si sono impegnati a stabilire che gli stati e i dispositivi disciplinari che si erano voluti in passato nietzscheani e marxiani sbagliavano, che ci sono un vero Nietzsche e un vero Marx che sono irriducibili a quegli esperimenti politici. E se la lettera talvolta faceva pensare il contrario, era allo spirito che bisognava guardare. Allo spirito: ovvero allo spettro, al fantasma, lo scheletro di fumo che ci resta in mano al termine di questo percorso verso il vero, l’autentico, il non contraffatto, che però si rivela un’eterna promessa mai mantenuta.

 

Una strategia di banalizzazione
Ferraris racconta non senza efficacia la storia di questo equivoco senza tuttavia riuscire a uscirne egli stesso, con il risultato che la mappa del labirinto diventa a sua volta un nuovo labirinto. Ferraris vuole regolare i conti con il padre della decostruzione e allora finisce per decostruire lui. Il quadro d’insieme è quello di un’autopsia lasciata a metà, con il cadavere aperto e gli organi disposti alla rinfusa, forse perché all’anatomopatologo è suonato il cellulare nel bel mezzo dell’operazione (del resto “Ontologia del telefonino” è il sottotitolo di un libro di Ferraris di qualche anno fa). Da questi brandelli, però, non emerge l’intero. Quando parte la confutazione vera e propria, è davvero forte l’impressione che si giri a vuoto, facendo rombare il motore ma rimanendo inchiodati sul posto. Lo spirito naïf con cui è affrontato l’eterno ritorno o addirittura la riproposizione della classica obiezione ingenua contro lo scettico (“se dici che non esiste la verità non stai forse enunciando tu stesso una verità?”) non sono casuali e certo non derivano da semplice ignoranza. Si tratta, piuttosto, di una strategia di banalizzazione. Tieniti il tuo attacco alla verità, le tue gerarchie, il tuo Superuomo, afferma Ferraris, e ammicca. In questo, “Spettri di Nietzsche” sembra un po’ il libro scritto dall’ultimo uomo contro il suo accusatore supremo. In fondo è una continuazione di Lukács con altri mezzi, solo che il cabaret si sostituisce alla criminologia filosofica. Nella villa di Sorrento dove il filosofo pensava lo spirito libero ora c’è una pizzeria: e giù risate (dopo la decostruzione, l’ironia: evidentemente non è così semplice dismettere l’abito postmoderno). Il Nietzsche di Ferraris è una corda tesa tra Woody Allen e Joseph Goebbels, un pendolo che oscilla tra il comico e il tragico, un povero sofferente che trasfigura la sua condizione in diagnosi epocale, col solo risultato di rendere patetico se stesso e malato il resto del mondo. Ma se non è più possibile costruire su Nietzsche una mitologia, come auspicava Bertram, o un culto, come lamentava Tönnies, forse al padre di “Zarathustra” dobbiamo almeno un’interpretazione seria, che non si limiti allo sguardo canzonatorio o all’effetto speciale truculento di sovrapporre i passi nietzscheani alle immagini della Germania che arranca di fronte all’Armata rossa. Finito il libro, invece, il lettore permane ancora nell’interrogativo di come quel goffo baby pensionato semi-cieco possa aver davvero spaccato in due la modernità, come egli stesso scriveva in continuazione ai pochi amici, sempre più preoccupati dalla crescente mitomania epistolare. Di come quest’uomo dall’esistenza catastrofica possa aver determinato quello che Gottfried Benn definiva “il più grande fenomeno di irradiazione nella storia dello spirito”. Se di Nietzsche non si spiega questo, non si è ancora spiegato nulla. Lo stesso accadeva con Nietzsche. “L’apolide dell’esistenza”, la godibile ma morbosa biografia scritta da Massimo Fini, in cui tutto era questione di scopate fatte o, per lo più, non fatte, quasi parlassimo del figlio nerd della vicina di casa. Molto meglio il bellissimo e delicato “Vita eroica di Nietzsche”, di Daniel Halévy, da Fini relegato in una nota a piè pagina come esempio di marchetta mitologizzante e “di destra”. Non c’è nulla di vero in questo giudizio e forse lo scrittore milanese si è fatto ingannare da quell’aggettivo furbescamente inserito solo nell’edizione italiana dell’opera (che in francese era solo “La Vie de Friedrich Nietzsche”). Oppure dagli editori italiani, prima il Borghese, poi il “fascistone” Ciarrapico. O ancora dalla biografia dell’autore, un eclettico scrittore di origine ebraica finito fra i membri della Association pour défendre la mémoire du maréchal Pétain. E’ pur vero che una delle prime recensioni italiane del libro, ancora nell’edizione francese, era apparsa in ambito socialista, sull’Avanti! del 13 agosto 1912. L’autore era un certo Benito Mussolini.

 

La sorella parafulmine
In questo quadro, e in linea con la sua personale battaglia contro i nietzscheani di sinistra, Ferraris ha se non altro il merito di distruggere – lo aveva già fatto nella corposa appendice all’edizione Bompiani della “Volontà di potenza” – il mito di Elisabeth, la “sorella parafulmine”. Un mito che ritorna pari pari in “Nietzsche e la costruzione del superuomo”, il settimo capitolo della “Controstoria della filosofia” scritta da Michel Onfray (Ponte alle grazie, 320 pp., 26 euro) e che tratta del “secolo degli Individui e dei Grandi Uomini”. (E’ probabilmente a causa di questa saturazione di egotismo che Onfray, eccezionalmente, non aggiunge il carico di ulteriore ego iniziando il saggio con la consueta mitologia autobiografica che apre gran parte dei suoi libri. Pensiamo alle sue meditazioni coraniche nel deserto in apertura del “Trattato di ateologia”; alla sua educazione sentimentale al principio della “Teoria del corpo amoroso”; alle sue disavventure nell’orfanotrofio dei frati pedofili ne “La potenza di esistere”; al trauma del primo incontro con l’orrore del lavoro salariato in “La politica del ribelle”; alle sue vacanze nicciane fra Venezia e Rapallo in “La scultura di sé”; alla scoperta dei libri di Freud su una bancarella in “Crepuscolo di un idolo”).

 

Ecco allora che ritorna la favola di un “Wille zur Macht” come “falso grossolano costruito dalla sorella antisemita, nazista, amica di Hitler, che raccoglie scritti di Nietzsche ai quali aggiunge falsi di sua mano, aforismi mutilati, smembrati, brani che sono copie di citazioni di autori (più di una ventina sono di Tolstoj e sono prese per affermazioni di Nietzsche!) o appunti di letture, brani avulsi dal loro contesto – il tutto per fare soldi e creare il culto del fratello che intende presentare come precursore del nazismo”. Ferraris smonta questi luoghi comuni uno a uno, ricordando fra l’altro come la prima edizione della “Volontà di potenza” sia del 1901, anno in cui Hitler aveva 12 anni, e quella canonica del 1906, quando il futuro Führer ne aveva 17. Opera filologicamente discutibile, oggi sappiamo che la “Volontà di potenza” non ha però falsificato un bel nulla in termini sostanziali, dato che i frammenti postumi editati da Adelphi e, del resto, tutti i libri pubblicati in vita dal filosofo stesso nulla attenuano in termini di contenuti politicamente scorretti. Finisce quindi la mitologia nera della sorella e del Nietzsche-Archiv da lei fondato, su cui del resto la vendetta democratica si era consumata assai precocemente: gli americani erano entrati a Weimar il 12 aprile 1945, a giugno l’intero territorio era passato sotto l’amministrazione sovietica. Il direttore dell’archivio, il 71enne Max Oehler, fu condannato alla deportazione in Siberia ma, rinchiuso nel frattempo in una cantina e lì dimenticato, morì di fame e freddo. Il Nietzsche-Archiv fu chiuso.

 

Gli ermeneuti sospettati
La fine della leggenda nera sul Nietzsche “buono” falsificato dalla sorella “cattiva” deve del resto più all’acribia maniacale di un vecchio professore marxista che al new realism un po’ risentito di Ferraris. Parliamo di Domenico Losurdo e del suo monumentale “Nietzsche, il ribelle aristocratico”, la cui prima e già ponderosa edizione è stata da poco riveduta e ampliata. Un libro che costituisce la vera pietra miliare di ogni discorso contemporaneo sul filosofo di Röcken, questo sì un erede degno della “Distruzione della ragione” lukácsiana. Pur con qualche rigidità interpretativa. Se Vattimo aveva dipinto a suo tempo un Nietzsche che parla solo per metafore e, da un certo punto in poi, finisce per autofraintendersi prendendole per vere, Losurdo ha compiuto l’operazione opposta. Se prima tutto era metaforico, ora tutto è letterale. Il Nietzsche di Losurdo non conosce allegoria, ironia, provocazione, iperbole, simbolismo, maschera. Tutto ciò che scrive è limpida dichiarazione di intenti.

 

Di più: è programma politico. Il saggio ha tuttavia il pregio di rendere postuma e indiretta giustizia a tutto il filone degli interpreti sulfurei di Nietzsche. Dagli ermeneuti del sospetto agli ermeneuti sospettati. Un filone nero che, in Italia, vede fra gli altri in bella mostra il breve e potentissimo “Nietzsche e la mitologia egualitaria”, di Adriano Romualdi, pubblicato dalle Edizioni di Ar dopo il niet del cattolico Volpe, che fra le altre cose già nel 1971 smonta l’operazione fraudolenta volta ad “assolvere” il filosofo dandogli patente di democraticità per condannare invece la macchina nazificatrice orchestrata da Elisabeth. Un anno dopo, su Nouvelle École, la rivista dottrinaria di Alain de Benoist, Giorgio Locchi, il deus ex machina italiano della Nouvelle Droite francese, metteva in guardia dalle mire espansionistiche progressiste sull’eredità nietzscheana con un articolo intitolato significativamente “Nietzsche et ses ‘récupérateurs’”. Locchi – forse la più originale, profonda e purtroppo misconosciuta figura intellettuale dell’intera cultura non conforme dal 1945 a oggi – non parlava per sentito dire. La sua frequentazione con l’intera opera nietzscheana, in tedesco, aveva pochi eguali, anche fra gli accademici. Molto tempo prima, quando aveva 14 anni, al collegio dai preti, un sacerdote l’aveva chiamato in disparte e, con fare circospetto, gli aveva passato un libro. “E’ roba che noi abbiamo messo all’indice, ma credo che a te piacerà”. Era “La nascita della tragedia”. Locchi scriverà in seguito un saggio fenomenale e denso, “Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista”, in cui il filosofo ci appare, ben oltre le asperità di una rottura fin troppo nota e unilateralmente cercata, come un sodale metafisico del compositore, suo Sternenfreund, “amico stellare”. Nella costruzione dell’opera d’arte totale, nella potenza di una melodia sempre nuova e che eternamente ringiovanisce il mondo, si rispecchia la battaglia zarathustriana per la libertà storica dell’uomo, contro i cammini obbligati e le strettoie necessarie di chi indica all’umanità una sola direzione, un solo destino, un solo fine. Ecco ciò che ha detto Friedrich Wilhelm Nietzsche. Veramente.
 

 

 

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