Mario Draghi (foto Ap)

Senza riforme, è certa una deriva “paternalistica” della società

Giorgio Arfaras

Draghi, tra lotta alla deflazione e Italia “signorile”. Meno occupazione tradisce il contratto sociale liberale

La deflazione è la variazione negativa dell’indice dei prezzi che, a sua volta, è una media ponderata. E’ anche per contrastare la tendenza disinflazionistica in corso nell’Eurozona che Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, ha annunciato due giorni fa nuove e innovative misure di politica monetaria espansiva. L’ultimo dato italiano in materia, che mostra una modesta deflazione, dipende dalla caduta di poche voci, la maggiore è l’energia, perciò essa non è generalizzata. La deflazione, allargando il discorso oltre il commento allarmato del dato puntuale, in sé non è un male, anzi. Oggi un’auto di gamma alta va meglio di una Ferrari di trenta anni fa, e costa pure meno. Certo guidandola non ti distingui socialmente, ma l’auto è migliore. Una lavatrice costa cinquecento euro, ossia un terzo di un salario mensile, ossia un trentaseiesimo di un salario annuale. Una volta costava ben di più, se misurata in unità salario.

 

[**Video_box_2**]I prezzi dei beni industriali calano, perché la produttività aumenta, mentre i prezzi dei servizi non cadono, perché la produttività di un barbiere oggi è eguale a quella dei tempi dei Romani. La deflazione sembra perciò un fatto naturale per l’industria, ma non per i servizi, ma, anche qui, sta arrivando. Chi scrive compra padelle, cibo per cani, eccetera, via internet. E’ abbonato ai giornali via internet, perciò non contribuisce all’abbattimento di alberelli, non abbisogna di camion che li trasportino, e neppure degli edicolanti. Insomma, stanno saltando i costi di distribuzione, che si aggiungono ai costi di produzione. I prezzi delle padelle e del cibo per cani e dei giornali comprati via Internet sono inferiori a quelli che praticano i negozianti e gli edicolanti. In conclusione, anche qui si ha deflazione, come nel caso delle lavastoviglie.

 

Una definizione del capitalismo è quella che afferma che, alla fine, è il consumatore a essere servito sempre meglio grazie agli imprenditori in competizione che offrono beni migliori a un prezzo decrescente, ciò che avviene grazie alla maggior produttività dei fattori. Perciò, da questo punto di vista, avendo oggigiorno un numero sempre maggiore di prodotti di qualità migliore a prezzi più bassi, il capitalismo starebbe ancora compiendo la propria missione storica. Per citare Joseph Schumpeter, oggi un operaio consuma – grazie alle lampadine – più luce artificiale di Luigi XIV, che aveva le candele.

 

Una volta le ristrutturazioni industriali, intese come riduzione degli occupati, non erano molto gravi, perché in successione si trovava lavoro nei servizi, dai quali servizi oggi, al contrario del passato, la forza lavoro comincia a essere espulsa.

 

Supponiamo che l’agricoltura sfami tutti occupando il 5 per cento della forza lavoro, con l’industria che offre i prodotti desiderati da tutti solo con un 25 per cento della forza lavoro. Bene, che fa il rimanente circa 70 per cento della popolazione in età da lavoro? Essa, per i progressi nel campo della comunicazione e della distribuzione nei servizi, è troppa?

 

Dovremmo, alla fine, avere una maggior disoccupazione (strutturale e non frizionale) rispetto al passato. Ossia, l’occupazione crescerà con la ripresa (effetto ciclo), ma non salirà abbastanza per tornare ai livelli passati (effetto trend). Ciò che è poi il dilemma della Federal Reserve in sede di decisione sul rialzo del tasso di interesse: la disoccupazione di chi cerca attivamente lavoro sta calando, ma i rinunciatari non trovano lavoro. Perché mai? Per carenza di domanda “aggregata”, o perché molti lavori non sono più richiesti?

 

Avremo in futuro una quota non modesta della popolazione che resta ricca, con un gran numero di “extracomunitari” a svolgere i lavori umili, con una diseguaglianza crescente dei punti di partenza, per effetto del maggior peso della ricchezza ereditata. Insomma, avremo, alla fine, una sorta di “società signorile di massa” (la definizione è di Luca Ricolfi)? Un mondo diverso da quello del Secondo dopoguerra dove l’occupazione (escludendo quella frizionale) era piena, i giovani tanti e in numero crescente, lo stato sociale in espansione, e il peso della diseguaglianze modesto rispetto a cinquanta anni prima.

 

Il classico legame tra produzione e reddito
E’ anche per questo che lo stesso Draghi, pur responsabile della sola politica monetaria, due giorni fa ha detto: “L’idea è che esistano tre strumenti per rilanciare la crescita. Riforme strutturali, politica fiscale e politica monetaria. Ho iniziato parlando della politica monetaria – ha detto a Francoforte – poi ho fatto riferimento alla politica fiscale, ma quindi ho concluso sostenendo che non c’è stimolo fiscale o monetario che possa produrre un qualsiasi effetto in mancanza di riforme strutturali che siano ambiziose, importanti e decise”. Sempre Draghi: “Da un punto di vista della fiducia, sarebbe molto meglio se avessimo in via preliminare una discussione seria sulle riforme strutturali e poi un dibattito sulla flessibilità”. 

 

Anche perché, al di là dell’andamento congiunturale di breve termine, se l’occupazione non tornerà ai livelli passati, si dovrà pensare a un “salario di cittadinanza” che però eviti di disincentivare la ricerca del lavoro. Insomma, avremmo una società che mantiene in modo permanente una parte della manodopera non qualificata. Inoltre, alzandosi la vita media, si dovrà anche mantenere un numero crescente di anziani. La produttività di chi lavora deve crescere moltissimo perché una quota non modesta andrà distribuita in misura crescente e permanente a chi non lavora.

 

Il contratto sociale “liberale” prevede che ci sia una elevata responsabilità individuale combinata con una relazione non troppo divaricata fra produzione e reddito. Col mondo che va nella direzione di un numero maggiore di persone che è “mantenuta”, si ha, invece, un mondo “paternalistico”.

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