Il Cavallino cadente
Montezemolo lascia una Ferrari ricca e charmante, ma nell’èra Marchionne non c’è più posto per i foulard. Storia breve di un’uscita di scena annunciata.
All’estremo limite della resistenza nervosa si crea una zona di calma in cui il giocatore, allo stesso tempo, gioca e si guarda giocare con distacco, con una profonda pace. Così un’indifferenza molle e indispettita, in apparenza, arma Luca Cordero di Montezemolo contro Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat che lo ha scaricato, con sguardo di cemento, a Cernobbio, “nessuno è insostituibile”. Ma un mite rancore vestito di preoccupazione, un bofonchiamento affiora qua e là nelle parole di Montezemolo: fermo nella sua dignità di sopravvissuto, lui sembra combattere scandalizzato ma non rassegnato una guerra impossibile “per amore della Ferrari”. Dice, dunque, sibilando: “Personalmente sono sereno. Ma sto ricevendo lettere da parte di collezionisti, di grandi clienti della Ferrari… Anche i sindacati, qui in fabbrica, sono preoccupati all’idea della fusione con la Fiat”. E insomma, con la ruvida seta della sua lingua, il quasi ex presidente della Ferrari dice che il divorzio, la sua fuoriuscita ormai inevitabile dall’azienda, il suo “licenziamento”, “il terremoto”, come lo chiamano a Maranello, può anche pregiudicare le relazioni della Ferrari con gli sponsor e con i grandi investitori internazionali.
Un paragone plausibile suggerisce l’idea di un gatto selvatico al quale abbiano spuntato gli unghielli ma che tuttavia sia in grado, da un momento all’altro, di graffiare a sangue. Ed è forse questo, chissà, l’inizio di un’acrobatica partita destinata a durare qualche, intenso, giorno, forse qualche settimana ancora cruenta, malgrado i due giocatori, ieri, si siano finalmente incontrati. Un ping pong in cui la Ferrari, l’azienda (con il suo ragguardevole fatturato: 1 miliardo in cash, e un utile di 400 milioni di euro annui), i suoi operai, gli ingegneri, i disegnatori industriali, devono tutti avere la sensazione di essere la stranita pallina. Nel mondo finanziario, con malizia, mormorano che tutto il “teatro” di questi giorni, e dei prossimi, lo scambio elusivo di messaggi occulti, la carambola di veline e mezze dichiarazioni sulle colonne dei giornali, l’altalena tra Marchionne e Montezemolo, servono ormai a una cosa sola. “Servono a trattare sulla buona uscita di Luca”, dicono. “Ormai è roba da avvocati. Numeri. Cifre. Zeri. Montezemolo sarà presidente di Alitalia entro due mesi, l’accordo è già chiuso. Fatto”. E dunque il quasi ex presidente della Ferrari è già dentro la compagnia aerea posseduta per il 49 per cento dagli emiri di Etihad, gli arabi che è stato lui a contattare e a mettere attorno allo stesso tavolo con Alitalia e con il governo nel corso di una cena, chez Montezemolo, mesi fa, presente Matteo Renzi. Dunque il caso Ferrari è chiuso, o quasi. Si tratta solo di stabilire i termini del divorzio. Gli alimenti, per così dire.
Dentro Fiat, invece, come raccontano amici della famiglia Agnelli, “adesso la vera contesa è tra Marchionne e Lavinia Borromeo, cioè tra l’amministratore delegato e la moglie di Elkann. Lavinia vuole fortemente che il marito divenga lui il presidente della Ferrari dopo Montezemolo. La signora infatti mal sopporta Marchionne, come poco sopporta anche Montezemolo”, dicono. “Lavinia orienta il marito. Lo vorrebbe più in vista, padrone, re e capo d’azienda, come fu l’Avvocato Agnelli. Ma John Elkann non è Gianni Agnelli, e non vuole nemmeno esserlo. E’ una persona molto perbene, un grande ascoltatore, un po’ ripiegato, silenzioso. Un’indole, in definitiva, poco carismatica. E non si può guarire da se stessi, anche se si ha una moglie tosta e principesca”. Chi sarà il presidente della Ferrari? Marchionne, rispondono tutti, malgrado la signora Elkann, il cui polso sulle faccende di famiglia, raccontano, fa invidia alla regina Elisabetta. E così dicono persino che a Villa Frescot, residenza Agnelli, il vecchio clan non si riunisca più da ormai quasi dieci anni per volontà di Lavinia, matrona del maniero, tessitrice del cerimoniale. Chissà. Ricorda Carlo Rossella, con vaporosità mondana, lui che è stato, tra le altre cose, anche direttore della Stampa a Torino, ed è amico intimo di Montezemolo: “L’ultima volta che fummo tutti insieme, Luca, i cugini Rattazzi, e molti altri del vecchio mondo Agnelli, fu al matrimonio di John. Gli inviti li aveva fatti l’Avvocato. Poi è cambiato tutto”. E anche l’addio di Montezemolo, pur nella forma un po’ crepuscolare e strapaesana in cui si consuma tutta la vicenda, è il segno dei tempi che cambiano, di equilibri che si ribaltano negli interstizi del piccolo potere industriale italiano, all’interno di ciò che resta di casa Agnelli, ma anche nei burrascosi corridoi di Rcs, l’editore del Corriere della Sera, ravvivati come sono dalla presenza emotiva e ingombrante di Diego Della Valle. Tutto, nel marasma, si tiene.
“Quello tra Montezemolo e Marchionne era un divorzio inevitabile”, dice Carlo De Benedetti. Il presidente del gruppo Espresso e fondatore della Cir conosce il mondo Fiat per esperienza diretta, fu collaboratore, manager, amministratore delegato e amico dell’Avvocato, conosce Montezemolo da almeno quarant’anni e ovviamente conosce e ha frequentato anche Marchionne. Dunque parla con una comprensibile, e articolata, sicurezza. “Il divorzio”, dice, “era inevitabile per un complesso di ragioni di carattere storico, biografico, industriale e infine anche personale, persino estetico oserei dire. Montezemolo e Marchionne sono due uomini fatti per non andare d’accordo, per non capirsi”, scandisce De Benedetti. “E non soltanto perché l’uno vuole quotare la Fiat a Wall Street portando con sé anche il gioiellino della Ferrari, in modo tale da ottenere la migliore quotazione possibile, mentre l’altro pensava a una Ferrari indipendente dalla Fiat, legata agli investitori arabi, e quotata, autonomamente, a Hong Kong”.
Ragioni industriali, finanziarie, ma anche personali, dunque. Estetiche, dice De Benedetti, tanto per cominciare. E dei duellanti di Maranello, l’uno è infatti tutto “concretezza”, uomo di molte matematiche e poco umanesimo, l’altro è invece, per così dire, tutto “schiuma”. Marchionne persino nell’aspetto non fa sfoggio della propria ricchezza, affetta piuttosto un’agiatezza disadorna, in pullover, o una raffinata ruvidità. Montezemolo è al contrario morbido, leggero, profumato al limone, con il fazzoletto esageratemente sbuffante nel taschino. E se Marchionne è campione di placida insolenza (“Montezemolo? Nessuno è indispensabile”), avendo in eccesso quella che si chiama padronanza di sé, Montezemolo, al contrario, con il suo doppio cognome aristocratico di gente abituata a misurare il mondo in ettari e are, è invece capace di sorridere e pettinare i pensieri anche di fronte ai nemici più determinati: non affronta mai di petto un ostacolo, e di solito le sue manovre sono a lunghissimo termine. “Io voglio soltanto il bene della Ferrari”, giura.
Dunque “i due non si sono mai sopportati. Questo da sempre. Sin dai tempi della diarchia dentro la Fiat, quando Luca era presidente e Marchionne era appena arrivato a fare l’amministratore delegato”, racconta un grande banchiere che ha sempre frequentato il Lingotto, uno degli uomini che più d’ogni altro ha forse costeggiato poltrone e divani del salotto finanziario e industriale della Seconda Repubblica. A quei tempi, quando Montezemolo rappresentava la famiglia e la continuità di casa Agnelli, quando Marchionne era ancora l’alieno del nuovo corso americaneggiante, a Torino capitava spesso che Montezemolo, malgrado fosse il presidente dell’azienda, non venisse nemmeno convocato alle riunioni. E se qualcuno, i primi tempi, con timidezza, tra i manager, faceva notare l’assenza del presidente, allora Marchionne voltava in su il palmo, riuniva a punta le dita, e la sua mano oscillava su e giù a indicare commiserazione, a esprimere il platonico e sprezzante interrogativo: “Ma a che ci serve Montezemolo? L’unico segno del suo passaggio in questo mondo è il fosso lasciato sulla poltrona”. E quando Montezemolo era invece presente a Torino, allora Marchionne lo guardava con la stessa espressione che avrebbe riservato a una lumaca nell’insalata.
“La loro non è stata una coesistenza facile, ma una coesistenza necessaria”, raccontano. Montezemolo garantiva ciò che resta della famiglia Agnelli. Voluto da Susanna e dalle altre sorelle dell’Avvocato, amico fraterno di Cristiano Rattazzi, dentro la Fiat Montezemolo era l’ultimo barbaglio d’un mondo al crepuscolo, “casa Agnelli”, appunto, un universo sottoposto alla tirannia del tempo, con le sue minacciose lancette, la crisi dell’auto e la voglia di disimpegno, la morte dell’Avvocato e poi quella del fratello Umberto, la crisi di un sistema dinastico e industriale che ha fatto nel bene e nel male la storia d’Italia. Montezemolo era dunque l’uomo incaricato di controllare la transizione, uomo di famiglia, quindi, inviato a frenare il tempo con i suoi ingannevoli aspetti, il maledetto tempo che urge, incalza, precipita inarrestabile verso la fine. Marchionne era – ed è – invece la sua nemesi. L’uomo nuovo, che, dicono gli ormai pochi avversari a Torino, “si erge sul proprio io come sulla cima di una torre pagana”. L’uomo che da anni sibila in privato la parola “rottamazione”, come Renzi, lui che incarna lo spirito di un’epoca veloce e senza fronzoli, persino brusca, forse senza garbo ma concreta, l’età della Fiat-Chrysler quotata a New York e con sede fiscale in Olanda (“non paga un euro di tasse in Italia”, si lamenta Diego Della Valle), l’uomo la cui lingua s’impunta sulle diverse vibrazioni delle consonanti, “rottamazione”, quasi anticipando il gusto contundente della conquista e del rilancio cosmopolita. Strologa dunque Cesare Geronzi, banchiere emerito, altro testimone di ogni delicata fase della storia recente del capitalismo italiano: “Marchionne non vedeva l’ora di liberarsi di Montezemolo. A Cernobbio c’è andato soltanto per questo. Per licenziarlo”. Fine della storia, dunque. Era inevitabile, come dice Carlo De Benedetti: “La famiglia Agnelli non c’è più. Quel sistema non c’è più. Non c’è l’Avvocato, e non c’è Gianluigi Gabetti. Solo loro, con i loro modi, con il senso pratico di Gabetti e con lo charme dell’Avvocato, riuscivano a gestire la compagine rumorosa e talvolta famelica dei sette fratelli e delle relative famiglie. Scomparso il sistema Agnelli, morta anche Suni, pure il ruolo di Montezemolo è venuto meno”.
[**Video_box_2**]Così adesso è il tempo di Marchionne e del silenzioso Jaki Elkann, “ma si è forse persa per strada anche un po’ di eleganza”, aggiunge De Benedetti. “Montezemolo può non piacere per tanti motivi, ma bene o male ha servito per trentadue anni l’azienda e la famiglia. La Ferrari l’ha creata lui. Ed è un’azienda spettacolare. I modi sono importanti nella vita, sono civiltà. E l’etichetta è purtroppo saltata. Anche questo, un po’, è lo spirito del tempo”. E insomma una volta, al Lingotto, anche nei momenti di scontro più acceso, la denigrazione, gli uomini della Fiat, se la riservavano gelosamente, evitando di concederne l’esercizio ad altri, o di pubblicizzarla. Adesso invece intorno a Montezemolo, a Marchionne, a Elkann, nel salotto del capitalismo italiano scoppiettano anacoluti, volgarità, ridondanze, esplode anche il petardo Diego Della Valle e così l’affaire Torino-Maranello s’intreccia con le lotte di potere dentro Rcs, tra gli azionisti del Corriere della Sera, in un groviglio scombiccherato, un pasticcio dai tratti strapaesani malgrado l’orizzonte internazionale in cui vorrebbero proiettarsi tutti i protagonisti sul proscenio girevole della baruffa, tra Wall Street e Abu Dhabi, tra finanza americana e petrolio arabo. Ed è un mare che si arruffa di creste candide, infido. Quando Gianni Agnelli ruppe con Cesare Romiti, quando i loro rapporti erano ai minimi termini, raccontano, anche allora si mantenne una cordialità e un rispetto formale sotto la brace di un conflitto assoluto che si era consumato nei giorni bui di Mani pulite. L’Avvocato trovò infatti un elegante escamotage per allontanare Romiti, e mai si parlò di licenziamento, di rottura cruenta: Agnelli fece modificare lo statuto dell’azienda, mise un limite di età a settantacinque anni. E si liberò del suo vecchio manager. Oplà. “Un vero capo si vede dall’evasione ma anche dalle bugie e dai segreti che sa mantenere dentro il gozzo”, dicono i testimoni di quei giorni in cui Romiti lasciò la Fiat da amministratore delegato (e con una lauta liquidazione che gli permise di diventare poi azionista di maggioranza al Corriere della Sera). La buona uscita venne concessa, senza teatro.
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