Il discorso di Obama
Cosa vuol dire “vincere” la terza guerra d'Iraq (e questa volta di Siria)
Tutti i dettagli della nuova strategia di Barack Obama per combattere lo Stato islamico sono subordinati a una vecchia domanda: come si definisce la vittoria? Detto altrimenti: raggiunti quali obiettivi l’Amministrazione sarà soddisfatta dell’operato?
New York. Tutti i dettagli della nuova strategia di Barack Obama per combattere lo Stato islamico sono subordinati a una vecchia domanda: come si definisce la vittoria? Detto altrimenti: raggiunti quali obiettivi l’Amministrazione sarà soddisfatta dell’operato e tornerà a occuparsi del “nation building at home”? Senza chiarezza intorno allo scopo dell’intervento e ai mezzi per raggiungerlo, gli annunci a cui il presidente dedica lo spazio grave della prima serata (alle 3 di mattina in Italia) anticipati da un’immensa nuvola di speculazioni, wishful thinking e sussurri più o meno informati rischiano di sciogliersi in una giustapposizione di mezzi tattici, uno sfoggio di strumentazione militare e diplomatica al servizio di un obiettivo non perimetrato.
Autorizzare i bombardamenti contro le roccaforti del Califfato in Siria, selezionare, addestrare e armare – finalmente in modo serio – i ribelli siriani e mettere insieme una coalizione basata sull’idea sdrucciolevole della comune avversione al nemico fondamentalista sono decisioni che riguardano il modo di raggiungere la vittoria sul campo. Al commander in chief del mondo libero spetta il compito di descrivere che volto abbia la vittoria, specialmente in un contesto in cui l’allineamento contro lo Stato islamico comporterà (e comporta già) alleanze e convergenze tacite con forze anche più pericolose. E’ a questo concetto che allude Henry Kissinger nel suo ultimo libro, “World Order”, quando dice che l’Iran è una minaccia geostrategica enormemente più grande dello Stato islamico. Se alla fine della campagna militare il Califfato uscirà in macerie e Teheran rafforzata e legittimata, l’America potrà parlare di vittoria? Un funzionario della Casa Bianca dice che lo scopo della nuova strategia è “degradare e infine distruggere lo Stato islamico”, variazione sul trittico “disrupt, dismantle, defeat” che Obama ha ripetuto all’infinito a proposito di al Qaida, organizzazione che il presidente per anni ha dato per spacciata, squattrinata e in fuga sotto gli stormi di droni telecomandati dalla Cia. Al Qaida, si è scoperto poi, non era affatto “on the run”.
[**Video_box_2**]Il buono stato di salute di al Qaida si deduce non soltanto dalla formidabile avanzata della sua costola irachena diventata indipendente, lo Stato islamico, ma anche dalla solidità del network tradizionale. Attentati e violenze nei paesi dove la rete terroristica è attiva sono in costante aumento, le capacità di reclutamento all’estero sono intatte, il sistema geopolitico in cui opera sembra tendere alla massima entropia. Il generale Michael Flynn, ex direttore dell’apparato d’intelligence del Pentagono, dice che chiunque giudichi al Qaida una forza in disarmo “o non sa di cosa parla, o è male informato o mente spudoramente”. Nicholas Rasmussen, vicedirettore del Centro nazionale per l’antiterrorismo, ha detto in un’audizione al Congresso che al Qaida nella penisola araba, e non lo Stato islamico, è il gruppo che costituisce una minaccia più grave e credibile per gli Stati Uniti al momento. Se il motore dell’azione militare è la difesa degli interessi americani, Obama dovrebbe agire non soltanto contro l’avanzata degli uomini in nero di al Baghdadi in Iraq e Siria.
Fino a questo momento la Casa Bianca ha giustificato le centinaia di bombardamenti aerei e il limitatissimo invio di soldati in Iraq con una combinazione fra richieste d’aiuto del governo iracheno, difesa degli interessi americani nella regione e prevenzione di genocidi. Ora il concetto si allarga, abbracciando la distruzione dello Stato islamico come obiettivo in sé, ma il presidente è ancora nell’ambito della riduzione dello scopo dell’azione americana ai minimi termini. Bush l’aveva chiamata “guerra globale al terrore” per sottolineare la vastità ideologica della minaccia sottesa all’intera la galassia del fondamentalismo islamico. Obama l’ha declassata a battaglia contro un singolo gruppo, al Qaida, ora temporaneamente sostituito nella classifica della percezione dallo Stato islamico, forza che ha come causa prossima la guerra civile in Siria in cui Obama ha fatto di tutto per non mettere le mani. Ma le cause remote vanno cercate altrove.
Le fonti della Casa Bianca dicono che saranno autorizzati attacchi in Siria e il Congresso voterà sul riarmo dei ribelli, “ma anche in questo caso – scrive Michael Auslin, analista dell’American Enterprise Institute – Obama concepisce il mondo in pezzetti separati invece di esprimere un concetto unitario”. I concetti su cui il presidente appoggia la sua politica estera sono frammentari, episodici, si nutrono di circostanze effimere e sfruttano convergenze irripetibili. E’ più semplice incastrare ideali piccoli e plastici negli interstizi della realtà, nella speranza suprema di realizzare il motto “don’t do stupid shit”. Ieri l’ex vicepresidente, Dick Cheney, in un discorso all’Aei ha citato l’egemonia americana dopo la Seconda guerra mondiale, ordine costruito “non per qualche strano ciclo storico”, ma “voluto, garantito e difeso dall’America” in nome degli ideali che i totalitarismi del Novecento avevano schiaffeggiato. Con una chiarezza del genere è più semplice distinguere la vittoria dalla sconfitta.
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