Il solito discorso
La strategia di Obama contro il Califfato ricalca modelli fallimentari
Il presidente lancia una versione muscolare delle misure usate in Yemen e Somalia, dove il terrorismo prolifera.
New York. Il presidente del “we don’t have a strategy yet” ora una strategia per “degradare e distruggere” lo Stato islamico ce l’ha. L’ha spiegata all’America e al mondo con un discorso in equilibrio fra gli ideali universali che sono scritti nel destino dell’America e le azioni caute che sono scritte nei suoi calcoli, un topos del suo genere politico-retorico. La nuova strategia di Obama consiste nell’espansione territoriale e diplomatica della vecchia strategia, con allargamento dei bombardamenti ai terroristi “ovunque siano”, dunque anche in Siria, addestramento dei ribelli siriani nelle basi saudite e l’invio di 475 militari in funzione di assistenza e comando alle forze irachene (in aggiunta ai circa 1.200 già sul campo). Il tutto grazie alle stesse basi legali usate da Bush e Cheney dopo l’11 settembre e nel contesto di una coalizione patchwork di paesi arabi e occidentali alla quale si è aggiunto, con compiti più o meno opachi, anche Israele. L’America provvede le forze aeree, i partner fanno il lavoro a terra, attività che anche il liberal New York Times riconosce come necessità strategica per raggiungere l’obiettivo. Finanziamenti al Free Syrian Army a parte, gli ingredienti della nuova strategia sono già stati ampiamente utilizzati da Obama, anzi, le campagne di bombardamenti con i droni combinate a limitate incursioni delle forze speciali sono l’essenza della sua politica antiterrorismo. Obama ha esplicitamente citato le misure usate in Yemen e Somalia come esempio virtuoso da replicare in Iraq e Siria: “Questa strategia che consiste nell’eliminare terroristi mentre sosteniamo i partner al fronte è stata applicata con successo in Yemen e Somalia”.
Difficile immaginare analogie meno convincenti. In Yemen i droni hanno colpito duramente e con precisione in questi anni “ma al Qaida nella penisola araba non è assolutamente vicina alla sconfitta”, dice l’analista Katherine Zimmerman. Qualche giorno fa il numero due dell’intelligence del Pentagono ha detto al Congresso che la branca di al Qaida in Yemen è ancora la minaccia più pericolosa per gli Stati Uniti, e soltanto sei mesi fa è stato sventato un attacco contro un aereo americano. Molti leader del network sono stati eliminati, ma lo Yemen è ancora un rifugio sicuro per le cellule che fanno capo a Nasser al Wahishi, che lo scorso anno è stato promosso dal leader al Zawahiri a “general manager” di al Qaida. In Somalia l’uccisione del capo di al Shabaab Ahmed Godane da parte delle forze speciali americane – ultima di una lunga serie – non ha inibito le capacità del gruppo di creare roccaforti nel sud del paese che permettono di colpire obiettivi in Kenya. Le istituzioni somale non sono in grado di gestire la sicurezza del paese e di impedire la proliferazione di un network la cui leadership si rigenera dopo ogni attacco con i droni. Non sono esattamente due “success story” dell’antiterrorismo. Obama ha chiarito per l’ennesima volta un punto fondamentale: non sarà un’altra invasione di terra. Ed è curioso che poche ore prima, dall’Iraq, il segretario di stato, John Kerry, abbia fatto una premessa: non manderemo soldati, a meno di “cambiamenti veramente, veramente drammatici”. Dopo le armi chimiche, le esecuzioni di massa, i tentativi di genocidio, le gole sgozzate di giornalisti americani e le decapitazioni rituali non è chiaro cosa l’Amministrazione intenda per “cambiamenti drammatici”.
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