Andavo in brodo di giuggiole
Dice Carlo Freccero, direttore sommo, e Carlito per amici e fan, che da giovane era un cinefilo. E che la sensibilità di allora l’ha trovata descritta nel film “The dreamers”. Ho la stessa età di Freccero, anche io trascinavo la mia panza per sale di cineforum, ma con i personaggi di Bertolucci non credo di avere mai avuto nulla in comune.
Dice Carlo Freccero, direttore sommo, e Carlito per amici e fan, che da giovane era un cinefilo. E che la sensibilità di allora l’ha trovata descritta nel film “The dreamers”. Ho la stessa età di Freccero, anche io trascinavo la mia panza per sale di cineforum, ma con i personaggi di Bernardo Bertolucci, persi tra amore, sogno e rivolta, non credo di avere mai avuto nulla in comune. Forse la disponibilità a qualche sconcezza di troppo. Il sogno non era poi così alto, così elegante, non indossava pelle diafana e parigina ma rabbia sguaiata e plebea, malinconia di periferia e dirompente voglia di distruzione. Forse per questo già allora trovavo eccitante quella scatola che in bianco e nero ti faceva vedere cose da un altro mondo, il brillante medico ingiustamente accusato di aver ucciso la moglie, condannato, che evade dal braccio della morte e si mette a vagare per gli States alla ricerca del vero assassino, il marshall che lo bracca e non gli darà mai tregua. L’angoscia si rinnovò per un numero interminabile di puntate, oltre cento, e nonostante il protagonista fosse irrimediabilmente monocorde noi si stava incollati (il Fuggiasco). Fu la prima lezione “americana” dal paese che la serialità televisiva la stava inventando: creare empatia, distillare suspence, costruire plot a orologeria sorretti da una grande scrittura per agganciare lo spettatore, tenerlo in stato di attesa permanente in modo che non potesse dire la cosa più che ovvia, che a lui del destino del dottor Richard Kimble non gliene poteva fregare di meno. Con “Ai confini della realtà” creato da Rod Serling e sceneggiato tra gli altri da Ray Bradbury imparammo una seconda lezione fatta di innovazione, fantasia, concisione: ovvero come fare storie di venticinque minuti che ancora oggi reggono come capolavori. Persino Perry Mason, avvocato frigido e bacchettone che vince perché difende solo imputati innocenti, sembrava avere più appeal di tanto cinema engagé che con la storia di fare domande che non hanno risposte si trasforma ineluttabilmente in una soverchia rottura di palle.
Quel mondo, l’incredibile talento nell’inventare storie e raccontarle con tecniche e ritmi che a pelle già allora avvertivamo come nuovi, il primo innamoramento che ne seguì, invero timido perché all’intorno feroci cani a guardia dell’ortodossia politica e culturale l’avversavano e la schernivano, fu anticorpo, scardinò la predisposizione della mente al conformismo, al piattume, alla noia. E tenni duro anche nell’epoca patinata e cotonata, squinzia e zozza di “Dallas”: se nel cinema cosiddetto d’autore trovate un personaggio che faccia epos e abbia la potenza simbolica e la longevità di un JR, fatemelo sapere.
Oggi che le sconcezze sono un faticoso ricordo, il sogno se n’è ghiuto e la rivolta pure, la politica non ne parliamo e i partiti con lei, il cinema è ridotto a merchandising e simpatici gadget nel migliore dei casi e nel peggiore a storie minimali di uomini e donne prepubertà, l’unica relazione conoscitiva con il mondo reale, l’unico canale di trasmissione del piacere passa attraverso un mezzo freddo come la televisione e attraverso la fiction. Non quella che si capisce in pochi secondi che non ha cut e se c’è un corridoio lo si deve percorrere fino in fondo con la camera a seguire, non quella in cui si vede crescere l’erba, non quella dai dialoghi verbosi e vacui e dalle spieghe accurate fra interpreti che hanno facce inadeguate e rendono inverosimile qualsiasi personaggio.
[**Video_box_2**]I “Soprano” e “Breaking dead”, “Law and Order” e “Csi” e costole, “Six feet under” e “Mad Men”, persino la storia del rapporto Master & Johnson, il “Trono di spade”, non sbagliano un colpo. Pensiamo alla politica: sono i soli a parlarne nelle forme dovute, scrutando gli angoli bui, svelando la mistificazione che c’è nella rappresentanza e lo stato di impotenza in cui versano le istituzioni della democrazia. Cominciò Aaron Sorkin con “West Wing”. Ora si celebra “House of cards” e giustamente: svela un lato della politica che conosciamo fin dai tempi di Machiavelli ma solo gli inglesi prima e gli americani poi hanno saputo trasformarli in racconti di estrema raffinatezza. Ma persino una serie minore come “Scandal”, meno curata nei dettagli e nelle interpretazioni, ci consegna un’immagine spettrale del potere: corruzioni, frodi elettorali, omicidi, ricatti, bracci armati che vanno per conto loro, insomma un universo in decomposizione su cui dovrebbe vigilare il comandante in capo che però è un cretino imbelle di proporzioni cosmiche. Completamente succube del capo staff, un omosessuale che dice alla segretaria vado a casa da mio marito, che sente come divina la missione di spalare la merda che l’esercizio del potere produce.
Chi poi ha saputo affrontare la questione della sicurezza interna meglio dell’adrenalinico “24”, in cui un agente combatte da solo senza potersi fidare neanche lontanamente di servizi segreti, politici, Casa bianca, amici e capi vari, perché l’ombra del tradimento è ovunque? Stesso scenario angosciante in “Homeland”, che ha un protagonista praticamente schizofrenico, anzi due. Nella fiction americana mettiamo anche “Romanzo criminale”, “Gomorra” e alcune prime creazioni valsecchiane, italiane ma fatte all’americana. Ecco tenetevi i cinema, i dibbattiti e le fiscion itagliane. Noi prendiamo a scatola chiusa qualsiasi cosa venga di là dall’Atlantico.
Il Foglio sportivo - in corpore sano