Evviva la fiction e le sue storie
Non è una moda. Non è un sostituto di libri, cinema, teatro eccetera. E’ l’evoluzione della specie delle storie. Scritta spesso divinamente, non una parola fuori posto. E concepita per il tuo piacere purissimo.
I tempi cambiano, e non è detto che cambino in peggio. Il nuovo negozio di giocattoli da visitare – la pasticceria per chi ama i dolci più di noi – ha in vetrina le serie televisive. Alla Mostra di Venezia ci siamo deliziati, e nello stesso tempo ristorati dopo certi artistici narcisismi da nouvelle cinématographie (peggio perfino della nouvelle cuisine), con la miniserie “Olive Kitteridge”. Prodotta dalla HBO e voluta fermamente dall’attrice Frances McDormand, presa d’amore per lo strepitoso personaggio, scostante quanto adorabile, che già dominava il romanzo di Elizabeth Strout (esce da Fazi). Quattro ore di puro godimento: veniva voglia di rivederle subito un’altra volta, senza aspettare gennaio quando saranno trasmesse su Sky.
Tradimento, dopo che abbiamo passato i migliori anni della nostra vita vedendo film, leggendo libri, frequentando festival letterari e cinematografici? Il contrario, piuttosto. Le serie tv sono l’evoluzione della specie. Coltivano l’arte di raccontare storie spernacchiata dalle avanguardie, dalle neo-avanguardie, dalle neo-neo-avaguardie (giacché al peggio non c’è limite: i discorsi in materia oscillano tra la vuota litania e l’involontaria farsa). E invece l’arte del racconto, come sostiene Karen Blixen che la pratica magnificamente, resta uno dei più grandi piaceri sperimentabili su questa terra. Non tanto per lo scrittore che fatica, suda e sta giù alla sala macchine. Quanto per noi che ce ne stiamo sdraiati su in coperta, a goderci il risultato. (No, non lo dice uno scrittore di bestseller o un regista di blockbuster: l’ha detto Louis-Ferdinand Céline).
Le serie tv raccontano storie con sublime energia e piglio da trionfatori, proprio come faceva il cinema negli anni d’oro di Hollywood e i romanzieri nel grandioso Ottocento dei feuilleton (che non è un insulto, bensì una collocazione giornalistica, quando la carta stampata era letta con passione e perfino Dostoevskij pubblicava a puntate). Se pensate che vedere “Breaking Bad”, “House of Cards”, “Girls”, “Masters of Sex” o “Sherlock Holmes” – per dirne una manciata, così ognuno può aggiungere il suo serial prediletto facendo l’elenco dei dispersi – sia una moda passeggera, o se siete affezionati alla vecchia gerarchia secondo cui in cima stanno i libri, poco sotto sta il cinema, la televisione è meglio tenerla spenta, significa che non amate le storie. Per questo purtroppo non esiste rimedio.
“Storytelling” – e non sappiamo come sia potuto succedere – è usato perlopiù alla stregua di un insulto. Lo pensa chi odia il pop, chi trova che il successo sia cosa brutta e sciocca, chi considera la letteratura o il cinema uno sport competitivo. Raccontavano i nostri antenati, gente ingenua che non aveva conosciuto il mondo complicato e frammentario e postmoderno in cui viviamo noi. A noi tocca sperimentare, innovare, rivoluzionare, decostruire – mica vorrete ancora dei personaggi? mica oserete chiedere “come va a finire”?
Osiamo, certo che osiamo. Se le ruote da sempre le costruiscono rotonde un motivo ci sarà, brevettarne una quadrata non pare una buona idea. Osiamo, e dunque andiamo a cercare storie costruite come il dio della sceneggiatura comanda. Con personaggi interessanti che non siano la controfigura dello scrittore e dei suoi amichetti, in ambienti che non somiglino alle camere adolescenziali con i lenzuolini stampati a supereroi. E se c’è un detective, di grazia, lo vogliamo come Matthew McConaughey o come Woody Harrelson in “True Detective”, non il solito investigatore della provincia italiana malinconicamente separato dalla moglie, che mangia in trattoria scambiando due parole con la cameriera.
“True Detective” di Nic Pizzolatto – in anteprima il 17 settembre al Roma Fiction Fest, da ottobre su Sky Atlantic – è appunto uno dei nuovi amori: nessuno era riuscito a ficcare tanto nichilismo in sole otto puntate senza far fuggire lo spettatore. La grandezza delle serie sta (anche) nella scelta ricchissima, ed è bello non essere costretti a viaggiare sulla Ford nera modello T tanto cara a Henry Ford, o non mangiare per un mese di fila pasta e fagioli. Abbiamo sempre diffidato dei lettori di un solo libro, qualunque esso sia, e ora diffidiamo dei fanatici spettatori di una sola serie, qualunque essa sia (la monogamia, se uno ci tiene, può essere coltivata in altri ambiti).
[**Video_box_2**]Non possiamo più fare a meno di “Orange is The New Black”, la serie carceraria di Jenji Kohan che già aveva lavorato per “Weeds” e qui adatta il memoir di Piper Kerman. Prigione femminile nello stato di New York, una valigia piena di soldi provenienti dal traffico di droga e la tua amante che te la affida (salvo poi arrangiarsi per ottenere uno sconto di pena e lasciarti nei guai, in cella con una pazza in divisa color guantanamo che ha la mania per l’astrologia).
Fa restare a bocca aperta la precisione e la maestria nella scrittura. Non troviamo una sola parola inutile, dove per inutili si intendono le parole messe lì dagli scribacchini per far sapere quanto sono bravi, quanti sinonimi hanno appena scovato nel l’apposito dizionario, quanto ben conoscono l’animo umano per averlo studiato sui libri di Massimo Recalcati. In “Orange is The New Black” ogni riga di dialogo serve per fare avanzare la storia: aggiunge un dettaglio, dà un’informazione, suggerisce un punto di vista. Non c’è neppure un silenzio o uno sguardo inutile, a dirla tutta. Dove per inutili silenzi e inutili sguardi intendiamo certe ingenue zeppette da film d’autore: la nostra eroina guarda a lungo dalla finestra, io regista te la inquadro di nuca, tu spettatore collabora attribuendole pensieri profondi.
Cari libri e cari film, cari registi e cari romanzieri, non siamo noi a tradire. E neanche stiamo diventando così capricciosi e distratti da non riuscire più a tener ferma l’attenzione su un libro o su un film. Siete voi che avete dimenticato – per partito preso o per pigrizia – come si fa il mestiere. Quindi guardiamo le serie, più complicate e ricche, con gran soddisfazione.
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