La tartina di tornasole
Lavoro, giustizia, esteri. Governare senza pensare al consenso. I mille giorni di Renzi.
Pubblichiamo il discorso sui Mille giorni pronunciato ieri mattina alla Camera dal presidente del Consiglio
Signora Presidente, onorevoli membri della Camera dei deputati
(…)Noi non siamo partiti con l’obiettivo di tenere in piedi la legislatura, né siamo interessati a tenere in piedi una carriera o un’ambizione di un singolo parlamentare o di un singolo membro del Governo. Partiamo dal presupposto di dover tenere in piedi l’Italia in una cornice internazionale difficile, per cui, fino a qualche mese fa, il mondo correva, l’Eurozona arrancava e l’Italia rotolava. Oggi siamo in un momento in cui il mondo corricchia, l’Eurozona è ferma, l’Italia ha interrotto la caduta. Ma questo non basta, non è sufficiente. I numeri non sono più quelli devastanti di qualche mese fa: nel 2012, abbiamo chiuso a meno 2,4, nel 2013, nove mesi fa, abbiamo chiuso a meno 1,9, oggi siamo a meno 0,2. Ma chi si accontentasse di interrompere la caduta dovrebbe avere qualche sano problema per il quale farsi vedere da uno bravo.
Noi abbiamo bisogno di ripartire e di tornare a crescere. Può essere felice la decrescita soltanto per chi non ha mai visto in faccia un cassaintegrato; può essere felice la decrescita soltanto per chi non sa l’odore un po’ strano e innaturale di una fabbrica che chiude; può essere felice la decrescita per coloro i quali non hanno mai visto un imprenditore vedersi respingere in banca una richiesta di fido. La decrescita non è mai felice. E allora il nostro obiettivo è quello di tornare a crescere, partendo, certo, dal numero degli occupati, il cui passo in avanti – più 83 mila tra il giugno 2014 e il giugno 2013 – è ancora decisamente insufficiente, vista la crisi che si è registrata negli ultimi sei anni con il sostanziale raddoppio della percentuale della disoccupazione, da circa il 7 al 12,6 per cento. Noi abbiamo bisogno di rovesciare e reimpostare la scommessa politica ed economica di questo Paese.
I “mille giorni” non sono un modo per perdere tempo, sono un modo per dare alla nostra azione l’efficacia e la forza di un progetto che abbia il respiro, l’orizzonte, il senso della missione e della visione. Su questo tema vorrei che fosse chiaro, come punto finale della mia premessa, un obbligo da parte di questo Governo: noi abbiamo il compito, il dovere, la responsabilità di indicarvi dove vogliamo portare il paese da qui ai prossimi mille giorni. Vi proponiamo di utilizzare come scadenza della legislatura la scadenza naturale, sapendo che è facoltà delle Camere, della Camera dei deputati e del Senato, in ogni momento, negare la fiducia e sapendo anche, con grande determinazione e convinzione, che da questa parte del tavolo non abbiamo paura di confrontarci con gli italiani. Non abbiamo minimamente paura di confrontarci con gli italiani, penso che lo abbiamo dimostrato in varie circostanze, tuttavia se diciamo di arrivare al febbraio 2018 lo facciamo perché prima degli interessi di parte per noi vengono gli interessi del Paese. (…)
Diceva Benedetto Croce che il carattere di un popolo è la sua storia, nient’altro che la sua storia. La storia di questo Paese dimostra che l’Italia ha una specificità e una straordinarietà che noi non possiamo negare; non è soltanto la bellezza di un paesaggio o di un’opera d’arte, è la capacità degli ingegneri, dei lavoratori, degli artigiani, delle persone che hanno fatto grande l’Italia. Nel momento in cui diciamo questo, individuiamo la constituency dell’azione di questo Governo e elaboriamo una polemica non semplicemente istintiva rispetto a quelli che sono stati definiti i professionisti della tartina, ma una polemica che è oggettiva rispetto ai presunti esperti che in questi anni hanno sottaciuto o forse non capito la gravità della crisi, non l’hanno prevista. Prima ne hanno sottaciuto la gravità, poi hanno sbagliato a dare le risposte e, adesso, dall’alto della propria sicumera, immaginano di spiegare a noi che cosa va fatto e che cosa non va fatto. Rispetto al derby tra professionisti della tartina e Italia che si spezza la schiena noi stiamo con questa seconda parte del Paese che è la parte che si sveglia la mattina presto, che va a lavorare e che esige da noi, essendo la constituency del nostro mandato, soltanto due cose: la prima è che noi per primi non ci rassegniamo alla rassegnazione. Chi continua a mandare avanti la propria famiglia, la propria azienda, il proprio impegno quotidiano, nonostante che tutto fuori sembri cospirare verso l’insuccesso, necessita da parte del gruppo dirigente, della classe dirigente del Paese, un impegno concreto a non accettare di mollare di un millimetro (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico), ma richiede anche a questo gruppo dirigente di individuare con definizione qual è l’orizzonte del nostro impegno. Io sono qui per dirvi questo, io sono qui per dirvi che alla fine dei mille giorni l’Italia tornerà ad avere un ruolo nella situazione politica internazionale, tornerà a fare l’Italia.
Sono rimasto sconvolto e stupito dal dibattito che ha accompagnato la nomina di Federica Mogherini ad alto rappresentante della politica estera e della politica europea. Mi ha colpito perché mai come in questo momento viviamo una stagione di crisi per alcuni aspetti senza precedenti: Paesi che si sono formati dopo i conflitti mondiali e che sono stati retti da una dittatura oggi perdono la loro unità o la loro integrità. È quello che sta accadendo, e noi stiamo combattendo contro questo rischio in Libia o in Iraq, dove i tentativi del nuovo Parlamento o del nuovo Governo sono per mantenere un’unità del Paese, che non è assicurata dal fallimento, dalla gestione della post-dittatura. Quello che sta avvenendo in Egitto è per noi un elemento di straordinaria attenzione e interesse; siamo stati i primi a recarsi a Il Cairo dopo il cambio di Presidente. Quello che sta avvenendo dopo la fine della Primavera araba, che probabilmente assomiglia più, per i confini e per i contorni, ad un autunno che non ad una primavera, ha visto comunque la presenza italiana in prima linea. E pensate a quanto sia complicata e difficile la situazione nel momento in cui, per la prima volta, si organizza uno Stato islamico con le caratteristiche del califfato, che si propone e si prefigge non soltanto di distruggere alcuni popoli nemici ma di lanciare una sfida radicale all’esistenza stessa dell’Occidente.
Di fronte a questo scenario, come fare a non valorizzare la politica estera come una grande occasione per rimettere al centro il Mediterraneo La Pira l’avrebbe definito il prolungamento del lago di Tiberiade, in un momento come questo. Ma come si fa a non considerare la politica estera come costitutiva anche di alcune scelte concrete Perché dalla politica estera deriva la politica di immigrazione, dalla politica estera deriva la valutazione sulla crescita economica, ma dalla politica estera deriva l’identità stessa del nostro Paese e deriva l’identità stessa dell’Europa nel momento in cui, per la prima volta dopo 25 anni dalla fine del muro di Berlino, tornano a spirare venti che per qualcuno dovrebbero assomigliare ad una guerra fredda tra l’Europa e il suo principale vicino, perché di questo si tratta nella discussione con la Russia. (…)
Di fronte a questo, l’Italia che ottiene la guida della politica estera europea è considerata da alcuni professionisti del commento nostrani come una sconfitta, perché della politica estera non dobbiamo occuparci, perché nel mondo globale noi dobbiamo preoccuparci di fare i nostri interessi andando a difendere un settore economico, come se la scommessa sulla politica estera fosse una battaglia, un’impuntatura personale del Presidente del Consiglio. (…)
Chiedo alla Camera di recuperare uno stile nella discussione. Il Senato ha fatto dei passi in avanti straordinari nel portare a casa un risultato che sembrava improponibile solo all’inizio dell’estate, anche perché fuori da qui il fil rouge che ha collegato il dibattito non è stato quello che collega settant’anni di storia costituzionale alla proposta di riforma costituzionale avanzata dal Governo. No, si è scelto più o meno opportunamente di gridare alla svolta autoritaria e poi contemporaneamente di dire che non eravamo in grado di portare avanti i nostri progetti. Una sorta di svolta autoritaria al rallentatore. Il primo golpe con la moviola fatto nella storia del Paese. Da 70 anni questa Camera discute sul fatto che Camera e Senato non possono fare le stesse cose e se siamo arrivati al bicameralismo perfetto è stato non per scelta visionaria e strategica ma per compromesso perché non si riusciva a trovare un accordo tra una parte del dibattito dell’Assemblea costituente che chiedeva la seconda Camera delle professioni e una parte del dibattito in Assemblea costituente che chiedeva la seconda Camera come Camera delle autonomie territoriali. (…)
Una Repubblica democratica fondata sul lavoro non può affondare sulle rendite e al termine dei mille giorni, molto prima, la legge elettorale non sarà più quella di adesso perché questa legge elettorale segna la sconfitta di questo Parlamento e dei precedenti Parlamenti. È la vittoria della incapacità della classe politica. È stata la Corte costituzionale a disciplinare la legge elettorale, allora non si tratta di inventarsi una legge elettorale ad hoc. (…) Al termine dei mille giorni, noi realizzeremo le riforme che abbiamo individuato e – vorrei dire – in qualche modo già impostato; è come se avessimo fatto nei primi sei mesi la cornice del puzzle, oggi è il momento di mettere i pezzi. Leggo ironie, come: avevi detto che nel mese di marzo avresti presentato la riforma del lavoro… È partita: il decreto-legge e il disegno di legge delega. Ad aprile il tema della pubblica amministrazione: è partito. Il tema del fisco, la giustizia. Verrò molto rapidamente – perché sono già lungo – sui singoli punti, uno per uno, ma vorrei qui rivendicare con grande decisione il fatto che o le riforme si fanno tutte insieme o non si porta a casa il percorso di cambiamento dell’Italia. L’idea di chi oggi ci spiega: ma dovevate iniziare da quest’altro argomento, ben altro è il problema dell’Italia, è il “benaltrismo” che diventa filosofia politica, individuando sempre qualcosa di diverso rispetto a quello che abbiamo messo in campo, ma ignora un dato di fatto e una constatazione oggettiva, per la quale mi perdonerete la brutalità: o le riforme le fai tutte insieme, o non esci con il passo della tartaruga da vent’anni di stagnazione e di blocco, non soltanto dell’economia, ma della credibilità della politica. Ecco perché io credo che le riforme siano lo strumento della crescita.
Pier Carlo Padoan e la sua proposta, la nostra proposta, per la ripartenza dell’economia nel dibattito europeo hanno illustrato con molta chiarezza un evidente paradosso: negli ultimi anni dal vocabolario della politica europea è venuta meno la parola crescita, cioè quel Patto si chiama Patto di stabilità e crescita, improvvisamente si è verificata una sorta di crasi casuale, per cui la stabilità è diventata un tutt’uno con l’Europa e si è perso il senso della crescita. Per noi occorre investire bene i 300 miliardi di euro che Juncker ha dichiarato essere pronti da investire per il futuro dell’Europa e dei quali siamo nelle condizioni di chiedergli conto fin dalle prossime discussioni nel Parlamento europeo, e utilizzare i 200 miliardi che vengono liberati dalla Banca centrale europea, chiedendo alle banche italiane di fare la propria parte. Io ho apprezzato la disponibilità – per il momento verbale – che le banche hanno espresso e siccome in questi primi sei mesi più volte ho incrociato le lame con le banche, a partire dal decreto-legge n. 66 sul finanziamento degli 80 euro, oggi dico qui in Parlamento che, se le banche italiane, che negli stress test a mio giudizio saranno comunque più forti di altre banche europee (perché bisogna anche smetterla con questa cultura della lamentazione e del piagnisteo per cui in Italia va tutto male: noi siamo quelli che hanno salvato le banche di altri Paesi; nessuno ha salvato la nostre banche, perché sia chiaro come stanno le cose e qual è la realtà fattuale), sono disponibili a fare la loro parte, andando ad investire finalmente i 200 miliardi non semplicemente sui titoli di Stato, ma recuperando la possibilità di finanziare le piccole e medie imprese e le realtà che investono, allora ci sono le condizioni perché il percorso di riforma abbia un significato e un’efficacia molto più forte. Però, al termine dei mille giorni, il fisco dovrà essere meno caro e più semplice. Abbiamo già iniziato, checché se ne dica, con la riduzione della spesa pubblica, partita con il decreto-legge n.?66; e con l’investimento negli 80 euro, che noi rivendichiamo con forza, in primis come atto di giustizia sociale e, come secondaria punta di riflessione, per il fatto stesso che gli 80 euro vanno a restituire potere d’acquisto a una classe, il ceto medio, che è stato bombardato e tartassato in questi anni nel silenzio colpevole della politica. La scelta degli 80 euro è la prima scelta di riduzione del carico fiscale. Certo, non è andata a tutti – è vero –, ha coinvolto 11 milioni di italiani. Qualcuno dice che è poco. certo, potremmo e dovremmo fare di più, ma abbiamo iniziato e, nell’iniziare, diciamo qui oggi che il nostro disegno culturale non può essere quello che ci viene rappresentato, per cui dovremmo cercare di imitare altri Paesi europei, immaginando la riduzione del salario dei lavoratori, convinti che questo sia uno strumento per agevolare la crescita. Chi oggi dice che dovremmo ridurre il salario dei lavoratori – come hanno fatto altri Paesi – perché costituirebbe un investimento sulla crescita, non soltanto ignora la realtà italiana, ma definisce una scommessa italiana che punta sulla produzione di bassa qualità, esattamente l’opposto di ciò di cui abbiamo bisogno, che punta sulla riduzione del potere d’acquisto del ceto medio, esattamente l’opposto di ciò di cui abbiamo bisogno, che punta sulla negazione alle italiane e agli italiani del diritto di fare quello che hanno sempre fatto: le cose belle, perché questa è l’Italia, l’Italia che è stata capace di produrre cose belle nel mondo, l’Italia in un mondo nel quale 800 milioni di nuovi lavoratori si affacciano sullo scenario globale, costituendo la nostra grande ricchezza, alla faccia di quelli che dicono che la globalizzazione è un problema: la globalizzazione è l’unica nostra ancora di salvezza, paradossalmente.
Ebbene, questo tipo di ragionamento sull’Italia comporta – lasciatemelo dire con grande decisione e determinazione – che noi non dobbiamo ridurre la qualità della vita dei nostri connazionali pensando di far fare, a meno, cose che fanno tutti, perché questo tipo di atteggiamento è una spirale senza fine. Noi dobbiamo far fare agli italiani cose che non fa nessuno o cose buone di altissimo livello, certo riducendo il costo del lavoro per le aziende – non c’è ombra di dubbio – e abbiamo iniziato a farlo con l’abbassamento del 10 per cento dell’Irap, che non è sufficiente. Certo che non è sufficiente. Ecco perché non basta semplicemente la riduzione delle tasse, se poi semplicemente pagare le tasse è un’impresa ardua soltanto burocraticamente parlando: occorre una strategia condivisa e unitaria, che porti alla semplificazione fiscale, all’abbassamento del carico sul lavoro, che perseguiremo fino al 2015, come abbiamo fatto nel 2014 con la riduzione, per la prima volta nella storia, del 10 per cento dell’Irap, perché di questo si è trattato – di questo si è trattato, checché se ne dica – e con il coinvolgimento del ceto medio. Mi scappa da ridere quando sento dire che il nostro modello dovrebbe essere la Spagna: io ho una grandissima stima della Spagna, degli spagnoli, ho una grande amicizia con il Premier spagnolo, ma quando sento dire che il nostro modello deve essere quello di un Paese che ha il doppio della disoccupazione che ha l’Italia, ho la preoccupazione di quale sia il modello culturale ed economico che noi oggi vogliamo affrontare e che vogliamo realizzare. Al termine dei mille giorni la giustizia non potrà essere quella di oggi. Oggi la giustizia civile ha un tempo di conclusione della sentenza di primo grado di 945 giorni; i francesi, gli inglesi e i tedeschi stanno sotto l’anno. Dobbiamo arrivare lì. Non è pensabile che il processo civile che oggi noi abbiamo non sia semplificato. (…) Infatti, è evidente che non sono le ferie dei magistrati, non è la sospensione feriale il problema della giustizia civile. Non lo è?! Non vi è nessuno qui dentro che pensi che, riducendo le ferie dei magistrati, risolveremo tutti i nostri problemi, ma non vi è nessuno, qui fuori, che pensi che non sia giusto far sì che non vi siano più 45 giorni di sospensione feriale, tra il 1o agosto e il 15 settembre, per una cosa così delicata e importante come il servizio della giustizia.
Guardare in faccia la realtà non può essere la negazione di un dato di fatto. E voglio dirlo con molta sincerità: questo processo di riforma della giustizia, per noi, deve cancellare il violento scontro ideologico del passato. Io sono dalla parte di tutti coloro i quali garantiscono, lottano e combattano per l’indipendenza e la libertà della magistratura, e sono dalla parte di coloro i quali questa battaglia la fanno sempre, quando è comoda e quando è scomoda; e la faccio sempre perché credo che sia l’elemento costitutivo – senza dover risalire a Montesquieu – per la libertà di una nazione.
Chi oggi volesse mettere in discussione la libertà e l’indipendenza della magistratura troverebbe innanzitutto noi, i primi e i più seri ostacoli a questo progetto. Contestualmente, rivendico a questo Governo di essere il primo Governo che è venuto in un’Aula del Parlamento a dire, a viso aperto, che noi non accettiamo che uno strumento a difesa di un indagato, l’avviso di garanzia, costituisca un vulnus all’esperienza politica o imprenditoriale di una persona. E lo dico oggi, qui, adesso. E lo dico perché, quando vi è un’azienda italiana, che è la prima… Proprio perché noi rispettiamo le leggi, quando capita a uno dei nostri e viene portata la richiesta di arresto di uno dei nostri, richiesta conforme alla Costituzione, noi, perché vogliamo più bene alla Costituzione che ai nostri amici, votiamo a favore. E non vi consentiamo di esprimere opinioni come quella che ho appena sentito da lei adesso, perché il rispetto delle regole significa dire che un indagato ha diritto ad essere considerato innocente fino a sentenza passata in giudicato e che, se vi è un parlamentare per il quale viene richiesto l’arresto in assenza di fumus persecutionis, noi siamo nelle condizioni, anche se è nostro amico, di votare a favore. Prima viene la Costituzione, poi vengono le vostre polemiche ideologiche. Voglio dire su questo, però, una cosa molto chiara, voglio dire una cosa molto chiara su questo punto: in queste ore….. in queste ore, un’azienda, che è la prima azienda italiana, che è la ventiduesima azienda al mondo, che ha migliaia e decine di migliaia di lavoratrici e lavoratori, che stanno a dimostrare che un’azienda italiana può fare grandi risultati, è stata raggiunta da uno scoop, da un avviso di garanzia, da un’indagine. Io dico qui, in Parlamento, di fronte a voi, che noi aspettiamo le indagini e rispettiamo le sentenze, ma non consentiamo a nessuno scoop di mettere in difficoltà o in crisi decine di migliaia di posti di lavoro e non consentiamo che avvisi di garanzia, più o meno citofonati sui giornali, consentano di cambiare la politica aziendale in questo Paese! (…)
[**Video_box_2**]Al termine dei mille giorni il diritto del lavoro non potrà essere quello di oggi. Io ritengo, assumendomi la responsabilità di quello che dico, che non ci sia cosa più iniqua in Italia di un diritto del lavoro che divide in cittadini di serie A e di serie B: tu sei una mamma di 30 anni, sei una dipendente pubblica o privata, hai la maternità; sei una partita Iva, non conti niente; tu sei un lavoratore, stai sotto i 15 dipendenti, non hai alcuna garanzia, stai sopra sì; tu sei uno che ha diritto alla cassa integrazione, ma dipende dall’entità, dall’importanza, dalle modalità della cassa integrazione ordinaria, di quella straordinaria, di quella in deroga. Questo è un mondo del lavoro basato sull’apartheid. Personalmente dico a quella parte di sinistra più dura rispetto alle necessità di cambiare le regole del gioco sul lavoro che, per come la interpreto io, la sinistra è combattere l’ingiustizia, non difenderla, e dico però contemporaneamente a chi oggi dà poteri taumaturgici alla riforma del mercato del lavoro e del diritto del lavoro che, per recuperare posti di lavoro, occorre una politica industriale (…).
Io rispetto il dibattito parlamentare, rispetto però anche le esigenze che ci arrivano, non soltanto dalle pressioni, che sono naturali, degli imprenditori che vogliono investire o dei lavoratori che chiedono soluzioni e garanzie diverse, ma anche dalle pressioni di noi stessi, perché si tratta di un tema che tiene insieme gli ammortizzatori sociali, la maternità, la modifica stessa dei controlli delle aziende, che può sembrare un tema banale, ma che è un primo elemento di credibilità della politica: riuscire a scegliere un meccanismo per il quale, quando entri in un’azienda, non entrano tutti sette volte di fila nel giro di un mese, ma entrano tutti insieme. (…) Bene, se noi saremo nelle condizioni di avere dei tempi certi e serrati, noi rispetteremo il lavoro del Parlamento e ci attrezzeremo per la delega, altrimenti siamo pronti anche ad intervenire con misure di urgenza, perché sul tema del lavoro non possiamo perdere un secondo di più.
Credo che nella legge di stabilità del 2015 avremo le risorse per ampliare la gamma degli ammortizzatori sociali, riducendone il numero e le dimensioni. Noi dobbiamo far sì che non ci siano più strumenti di cassa integrazione, ma che ci sia un meccanismo semplice per tutti, per cui, se sei licenziato, hai la possibilità di essere accompagnato dallo Stato, hai la possibilità di fare corsi di formazione seri e hai il dovere, al primo, secondo o terzo tentativo di offerta che ti viene fatto, di accettare l’offerta di lavoro che ti viene fatta, secondo il principio tipico delle social-democrazie e delle liberal-democrazie europee. (…) Al termine dei mille giorni ci sarà una legge sui diritti civili, perché non è pensabile che questo tema torni ad essere argomento di discussione politica. Al termine dei mille giorni ci sarà una riforma della Rai, in cui la governance deve essere sottratta dalle scelte del singolo partito. Lo dice il capo del partito più grande d’Italia, che rivendica con orgoglio il fatto di non avere mai incontrato in questi primi mesi l’amministratore delegato dell’azienda pubblica, lasciando la libertà, a quell’azienda, di svolgere il compito che gli azionisti le hanno dato. (…) Si è pensato, negli ultimi mesi, che l’interesse nazionale fosse in contrasto con l’ideale comunitario, con l’ideale globale, con l’ideale europeo. L’interesse nazionale, l’interesse di questo Paese non è in contrasto con l’ideale europeo. L’interesse nazionale è tornare a far sì che l’Italia recuperi il proprio ruolo nel mondo.
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