Si alza il vento
I mille giorni e quel senso d’impossibilità, tutt’intorno, a reggere l’urto della speranza. Dopo il discorso del presidente del Consiglio parte la piccola guerra sonnolenta, impietrita e cinica, c’era Rosi Bindi indispettita, Laura Boldrini affaticata. Allora è diventato chiaro, quale sia la differenza tra avere aperto la finestra e cercare di tenerla sempre chiusa.
Dopo il discorso sui mille giorni che ci aspettano, hanno preso la parola i deputati. E poiché Matteo Renzi, alla Camera, aveva da pochi istanti finito di parlare del futuro dell’Italia, delle cose possibili e belle, e della necessità di aprire la finestra e guardare fuori, era rimasta nell’aria un’idea di possibilità (oltre all’immagine di impiegati degli uffici pubblici che stanno con i telefonini in mano a mandare messaggi, “quando con i telefonini potremmo superare l’idea stessa di certificato”).
Renzi aveva parlato per quarantacinque minuti, a braccio, gettando un’occhiata alla scaletta di tanto in tanto, appassionato e attento anche ai borbottii (“prima la Costituzione, poi le vostre polemiche ideologiche”), pronto e vivo su tutto tranne che sulla cravatta: Benedetto Croce e Twitter, la decrescita che non è mai felice, la scuola e la pubblica amministrazione, la giustizia, il lavoro, ma soprattutto l’identità, la storia di questo paese e gli anni che verranno. La volontà di non perdere tempo. Come il verso di Paul Valéry, “Si alza il vento, si deve cercare di vivere”, sembrava questo il senso.
Dopo il vento, i deputati. Il primo che ha preso la parola è stato un coetaneo di Matteo Renzi, Roberto Speranza, del Partito democratico. Aveva un foglio in mano. Avrà preso qualche appunto durante il discorso di Renzi, ho pensato. Invece ha letto, dall’inizio alla fine. Ha letto pagine che aveva scritto prima, una cosa già pronta e inanimata, come stare in un ufficio con il telefonino in mano a scambiarsi messaggi mentre qualcuno ti guarda dall’altra parte del vetro, in fila. In quel momento, mentre sventolavano bandiere della Serenissima Repubblica di Venezia, mentre Renato Brunetta diceva “basta con la retorica, la demagogia, il populismo”, quell’aria di possibilità, quel verso di Paul Valéry sul vento che si alza si è come afflosciato, ed è ritornata la stanca aria da Parlamento, con le voci impastate, oppure rabbiose, spesso robotiche, le guance che cadono, un Cinque stelle che ripete le cose dette da Beppe Grillo sette anni fa.
[**Video_box_2**]Non c’erano più i mille giorni (del governo e di noi), ma una piccola guerra sonnolenta, impietrita e cinica, c’era Rosi Bindi indispettita, Laura Boldrini affaticata. Allora è diventato chiaro, nonostante la mano in tasca e il mento alzato, quale sia la differenza tra avere aperto la finestra e cercare di tenerla sempre chiusa. “Il domani non può essere la cosa che incute terrore”, ha detto Renzi qualche ora dopo, in Senato, prima che un senatore prendesse la parola e leggesse un altro foglio, dall’inizo alla fine, avvicinandolo molto agli occhiali, creando un effetto molto simile al terrore. Ieri però per quarantacinque minuti almeno si è accesa la speranza (ma potrebbe velocemente spegnersi) che i prossimi mille giorni non saranno la cosa su cui esercitare i nostri sms (oppure i tweet, è lo stesso), le facce buie sopra un foglio battuto a macchina da altri e nemmeno mandato a memoria.
Qualcuno potrebbe anzi essersi infiammato alle parole di Renzi e avere lanciato il telefono fuori dalla finestra. Meglio raccoglierlo, aggiustarlo, chiedergli scusa, nel caso in cui nei prossimi mille giorni dovesse succedere di “reggere l’urto della speranza”, e non avere più bisogno di timbri e di cerelacche e preghiere davanti a uno sportello abbassato. E se si alza il vento, allora forse basta non chiudere la finestra, e restare vivi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano