In che senso la serialità ha rottamato il vecchio moralismo televisivo
Verso la fine degli anni Novanta, più di un osservatore scommetteva sull’imminente fine della televisione. Tuttavia, proprio nello stesso periodo, dall’altra parte dell’oceano Atlantico prendevano forma i primi prodotti della “nuova” serialità televisiva.
Verso la fine degli anni Novanta, più di un osservatore scommetteva sull’imminente fine della televisione. Negli stessi anni, la diffusione su larga scala di internet, con le sue promesse di libertà, sembrava certificare il tramonto definitivo del medium più rilevante del ventesimo secolo. Tuttavia, proprio nello stesso periodo, dall’altra parte dell’oceano Atlantico prendevano forma i primi prodotti della “nuova” serialità televisiva. Con i Sopranos, trasmessi per la prima volta dalla HBO nel 1999, comparve sugli schermi di decine di milioni di telespettatori, sparsi per i quattro angoli del globo, una nuova modalità narrativa capace di segnare in maniera indelebile lo sviluppo dell’industria televisiva del terzo millennio.
Dal mitico Tony Soprano a oggi, la produzione di serie televisive ha conosciuto un successo senza precedenti rimettendo, per dirla con Rudy Garcia, la televisione al centro (perdonateci l’espressione) del famoso villaggio. Tutti ne parlano, tutti le vedono, e pensare che fino a qualche anno fa, durante una conversazione amichevole, potevamo facilmente incappare in snobismi culturali da salotto, del genere: “No sai, io non guardo la tv”. Averci liberato da retoriche così miopi è un merito da non sottovalutare, soprattutto in funzione della qualità dei rapporti sociali correnti. Nel giro di un quindicennio il numero delle serie televisive prodotte nel mondo è valutabile nell’ordine di centinaia di esemplari, ognuna con ambientazioni e temi propri. Il loro incontestabile successo non è, tuttavia, spiegabile solamente con l’ausilio di numeri e statistiche (rileggersi per credere numero di qualche mese fa del mensile IL proprio sul tema). Per comprendere in profondità il significato sociale e culturale delle serie tv è necessario in primo luogo guardare al pubblico, e domandarsi perché milioni di spettatori decidono di dedicare molto tempo a questo genere di consumo culturale.
[**Video_box_2**]La fruizione televisiva è una scelta cosciente operata da ognuno di noi, soprattutto oggi che la moltiplicazione dei canali televisivi e dei dispositivi di ricezione permette esperienze più personalizzate. Se noi, e gran parte dei nostri conoscenti, non possiamo far a meno di una sana dose settimanale di serie tv è perché in esse vediamo quello che siamo, o quello che vorremmo essere. Non è un filosofismo astratto. Comprendere noi stessi e il mondo che ci circonda attraverso storie, racconti e forme di rappresentazione è un bisogno antropologico, prima ancora che sociale, dell’individuo moderno. Senza l’immaginario collettivo prodotto dalla televisione sarebbe impossibile ricostruire il senso delle nostre azioni quotidiane, e soprattutto capire il significato del mondo che abitiamo. A questo bisogno hanno storicamente risposto prima il romanzo e poi il cinema, fino ad arrivare ovviamente alla televisione. Il legame tra letteratura, cinema e serialità televisiva è quanto mai d’attualità.
Non è un caso che da tempo i migliori scrittori, attori e produttori di Hollywood si esercitano stabilmente nella realizzazione di serie tv. Le serie televisive – come ha ricordato due giorni fa da Mariarosa Mancuso sul Foglio – sono l’evoluzione delle forme collettive del raccontare storie. Queste, spingendo l’acceleratore sulle sperimentazioni narrative, hanno portato la televisione a un livello superiore di aderenza alla realtà. Probabilmente non raggiungibile oggi né dall’editoria, né dal cinema. L’intera gamma delle serie tv prodotte negli ultimi anni vale come una’attualizzazione della balzachiana Comédie humaine. In essa, alla stregua della notevole raccolta del grande romanziere francese, troviamo qualsiasi genere di figura, personaggio e ambientazione tipica delle società occidentali. Le serie tv sono pertanto un grande racconto del presente, in cui non possono che emergere temi di grandissima attualità, come quelli del doppio (si pensi a “Dexter”), e quelli del cinismo (“Mad Men”, “Desperate Housewives”, “House of Cards”), finalmente raccontati senza sovrastrutture ideologiche e soliti moralismi.
Un altro elemento fondamentale per comprendere il successo delle serie tv è la loro innovativa modalità di produzione. Le serie televisive di ultima generazione hanno saputo affermare un’incredibile estensione del tempo e dello spazio narrativo. Ciò permette di sviluppare all’interno della stessa serie un articolato intreccio di trame e sotto trame, capaci di conferire a ogni singolo prodotto una complessità narrativa inimmaginabile per l’industria culturale novecentesca. Non è casuale che Robin Wright, l’algida Claire Underwood di House of Cards, ribadisca questo concetto durante una delle tante interviste rilasciate per promuovere la serie: “La cosa più bella del costruire questa storia è che non siamo confinati in due ore come in un film, dove devi conoscere l’arco narrativo del tuo personaggio ed è difficile muoversi in quello spazio. Qui invece abbiamo avuto molto spazio per collaborare, esplorare vari aspetti e svilupparli durante il processo. Quello che facciamo influenza quello che succederà tra quattro episodi, ma non lo sappiamo fino a che non viene svelato”. “The medium is the message”, diceva McLuhan. La dilatazione temporale delle serie tv, unita alle nuove possibilità di fruizione che reti e dispositivi digitali ci hanno messo a disposizione, hanno favorito forme di consumo televisivo impensabili sino a pochi anni fa. Tutto ciò ha preparato il campo per una significativa ridefinizione dell’industria televisiva mondiale. L’emergere di fenomeni come Netflix, così legati alla storia recente della serialità televisiva, sono un esempio clamoroso di come il medium televisivo si sia rigenerato e continui ad essere uno dei protagonisti della storia sociale e culturale del mondo contemporaneo.
Federico Tarquini, docente di Culture digitali all’università di Viterbo
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