Matteo Renzi (Foto LaPresse)

Renziani e lavoro. Due fronti

Claudio Cerasa

Due anime, un leader. Quando Matteo Renzi si ritroverà a prendere una decisione finale sul percorso necessario da seguire per trasformare il Jobs Act in una riforma incisiva e non solo in una riforma slogan, dovrà mettersi d’accordo con la sua storia.

Roma. Due anime, un leader. Quando Matteo Renzi si ritroverà a prendere una decisione finale sul percorso necessario da seguire per trasformare il Jobs Act in una riforma incisiva e non solo in una riforma slogan, dovrà mettersi d’accordo con la sua storia e decidere se le lancette della rottamazione dovranno tornare al fatidico 2012, anno di vero e duro riformismo della banda Leopolda, oppure se andranno lasciate scorrere alla fine del 2013, anno in cui Renzi vinse a mani basse le primarie contro due quasi anonimi deputati del Pd. Finora il riformismo di Renzi, specie sul lavoro, è stato  un pendolo che ha oscillato senza soluzione di continuità.

 

Solo per ricordare. Un giorno Renzi dice che Sergio Marchionne è il meglio fico del bigoncio. Il giorno successivo dice che Sergio Marchionne non è il meglio fico del bigoncio. Un giorno Renzi dice che il modello di contrattazione aziendale suggerito da Marchionne è quello giusto per far ripartire il paese. Il giorno dopo annuncia di voler ragionare sulla riforma della contrattazione aziendale con il sindacalista più lontano da Sergio Marchionne (Maurizio Landini). Un giorno dice che l’articolo 18 è un tabù che la sinistra deve superare (primarie 2012). Il giorno dopo dice che l’articolo 18 non è il problema del mercato del lavoro (primarie 2013). Un giorno si fa scrivere i discorsi da Pietro Ichino (che sulla riforma del lavoro non ha idee molto distanti da quelle del centrodestra). Il giorno successivo sceglie come responsabile economico del Pd un economista (Filippo Taddei) vicino a un politico (Pippo Civati) che considera da sempre Pietro Ichino una specie di cavallo di troia del centrodestra finito misteriosamente nel mondo del centrosinistra. La fotografia migliore per mostrare la distanza tra quelli che potremmo chiamare il Renzi Uno e il Renzi Due è perfettamente sintetizzata dal gruppo di persone che collaborano con Palazzo Chigi per scrivere la riforma del Lavoro (davvero pensavate che la riforma del Lavoro venisse scritta al ministero del Lavoro?).

 

Da una parte (poi vedremo le differenze) c’è il gruppo presente fisicamente a Palazzo Chigi guidato da Filippo Taddei, che da qualche mese, in collaborazione con Tommaso Nannicini, professore associato di economia politica all’Università Bocconi di Milano, ha preso in mano il dossier sul Lavoro e ha provato a mediare quanto più possibile con quello che è oggi – lo diciamo con un sorriso – il nemico pubblico numero uno del Jobs Act renziano: Cesare Damiano, ex Cgil, oggi capo di quella commissione Lavoro alla Camera dove su ventuno parlamentari del Pd sono dieci quelli iscritti al sindacato guidato da Susanna Camusso (che come è noto con Renzi non ha una sintonia particolarmente profonda). Dall’altra parte c’è invece il giro più esterno a Palazzo Chigi che coincide più che con un gruppetto di persone con unico senatore: quel Pietro Ichino, senatore di Scelta civica, membro della Commissione Lavoro al Senato, a cui Renzi già ad aprile ha scelto di affidare il delicato compito di relatore del disegno di legge delega sul Jobs Act. Dov’è il problema? Dov’è la ciccia? Semplice. Dal punto di vista della comunicazione il problema non esiste. A parole tutti – da Renzi passando per Ichino e arrivando fino a Fassina e persino a Landini – dicono che il contratto unico a tutele crescenti è cosa buona e giusta e dunque, leggendo i giornali e le cronache di questi giorni, è complicato capire dove sia il problema: se tutti la pensano così, se persino i sindacati chiedono un contratto unico a tutele crescenti, che ostacoli può incontrare Renzi nella sua strada di riforma del lavoro? I renziani della prima ora (quelli rimasti folgorati dal Renzi del 2012, che solitamente si riconoscono dal grado di stima che hanno per Davide Serra: maggiore è la stima, maggiore è la vicinanza al primo Renzi) dicono che il contratto a tutele crescenti ha un senso e non è una ciofeca per i lavoratori solo se le tutele crescenti sono sempre crescenti e non solo per i primi tre anni.

 

[**Video_box_2**] I renziani della seconda ora (quelli rimasti folgorati dall’ultima versione di Renzi e quelli convinti, come per esempio Matteo Orfini, presidente del Pd, compagno di banco di Yoram Gutgeld in Parlamento, che non siano i post-comunisti a essere diventati renziani ma che sia più semplicemente Renzi a essere diventato un po’ meno renziano di un tempo) dicono che il contratto a tutele crescenti ha un senso e non è una ciofeca per i lavoratori solo a condizione che le tutele crescenti siano tali solo e soltanto per i primi tre anni, dopo i quali tornerebbe in vigore l’articolo 18 (questi ultimi, per capirci, sono i sostenitori del progetto Boeri-Garibaldi, progetto che piace molto all’attuale responsabile economia del Pd e all’altro consigliere economico di Renzi Yoram Gutgeld, e progetto che nella passata legislatura arrivò in Parlamento con una legge firmata, tenetevi forte, da Cesare Damiano a da Marianna Madia). Nel renzismo anche oggi convivono queste due anime in conflitto tra loro. A giudicare dalla faccia feroce fatta in queste ore dal presidente del Consiglio (“L’obbligo del reintegro – è il pensiero di Renzi riportato ieri da Repubblica – sarà sostituito da un indennizzo, tanto più alto quanto più alta sarà l’anzianità del lavoratore”) l’impressione è che il presidente del Consiglio sia tornato sui passi delle prime Leopolde. Ma a giudicare invece dai complicati equilibri di cui dovrà tenere conto il Rottamatore viene da pensare che vedere il Renzi originale in questa legislatura sarà molto più complicato del previsto.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.