La Giustizia bacchettata con un blues dal presidente delle Camere penali
Immaginate il volto austero del marchese Cesare Beccaria che imbocca un sassofono. Che trovata sarà mai questa? Una trovata “illuminata” se l’autore è Valerio Spigarelli, presidente uscente dell’Unione delle Camere penali, che per la sua ultima relazione oggi a Venezia rivisita lo storico simbolo dell’organizzazione in versione blues.
Roma. Immaginate il volto austero del marchese Cesare Beccaria che imbocca un sassofono. Che trovata sarà mai questa? Una trovata “illuminata” se l’autore è Valerio Spigarelli, presidente uscente dell’Unione delle Camere penali, che per la sua ultima relazione oggi a Venezia rivisita lo storico simbolo dell’organizzazione in versione blues. Spigarelli s’ispira a John Coltrane piuttosto che ai venerati maestri. Niente boria da leguleio magniloquente e astruso, ma un “Justice Blues” completo di introduzione, tema portante, assolo e jam session finale. Alla platea di penalisti riuniti in congresso Spigarelli proporrà la “cronaca semiseria” degli ultimi quattro anni alla guida dell’Unione.
Il noto avvocato romano con studio nell’esclusivo quartiere Coppedè è il tipico donchisciotte ultragarantista che in tribunale si fa leone. Goliardo e ribelle all’università, insostenibilmente lieve nell’essere come intelligenza comanda. Un mix che a 56 anni suonati ti rende sentimentalmente instabile, pannellianamente disposto a digiunare per i detenuti, tifoso sfegatato della “Maggica”, nonché un raro esempio di uomo anti cliché. Allergico a ogni tipo di celebrazione, funerali inclusi, quando muore il consigliere Loris D’Ambrosio, Spigarelli decide di fare eccezione e va in chiesa per commemorare “una persona spezzata dal conformismo mediatico-giudiziario”. Negli ultimi quattro anni deve confrontarsi con cinque ministri della Giustizia e partecipare a decine di tavoli, convegni e commissioni per tracciare le linee guida della sempre invocata riforma della Giustizia. Alla fine se ne fa poco o nulla. Nel suo discorso Spigarelli ripercorre alcuni momenti cult sul fronte giustizia. Per esempio, il braccio di ferro tra Napolitano e la procura palermitana in cui l’Unione si schiera senza indugio con il primo. La commissione Fiorella, nominata dal Guardasigilli Severino, tira fuori “da sotto i tappeti ministeriali” i dati veri sulla prescrizione che a dispetto della vulgata corrente è in calo da anni (250 mila pronunce nel 2006 fino alle 125 mila nel 2011).
[**Video_box_2**]Soprattutto, per oltre la metà dei casi essa matura nel corso delle indagini preliminari. Quando il caso Ligresti si abbatte sul ministro Cancellieri, l’Unione si smarca dagli indignati di professione: “Lo scandalo vero non stava nel fatto che si fosse mossa a pietà e avesse fatto una mezza raccomandazione, ma che pur riconoscendo come necessaria l’amnistia il ministro si trincerasse, come il suo predecessore, dietro la competenza del Parlamento”. Quando Berlusconi viene estromesso dal Senato “in forza di un’ineleggibilità che retroattivamente gli hanno ammannito”, l’Unione avanza forti dubbi e prende le distanze “dalla voglia di sangue, ché in Italia uccidere un uomo morto è uno sport assai praticato”. Rimane l’amarezza per lo “svuotacarceri in versione ultralight” e il nulla di fatto contro l’abuso della carcerazione preventiva. “Chi se lo ricorda Ernesto Lupo, primo presidente della Cassazione, che nel 2012 afferma a chiare lettere che la crisi della custodia cautelare sta proprio nel suo uso incostituzionale come anticipazione di pena”? Nessuno, è la risposta. La jam session è riservata al “Sillabario minimo della giustizia’. Ecco il fattore B inteso come Berlusconi Silvio, il Grande Inquisito, che per vent’anni funziona da formidabile alibi perché ‘ogni innovazione, anche la più sacrosanta, viene passata ai raggi x del cui prodest’. La D è Democrazia giudiziaria, “un imbroglio che mandarini giudiziari innamorati del Potere hanno inventato per nobilitare le loro smanie”. La P sta per “Potere”, quello giudiziario, autocratico per natura: “In Italia le leggi le fanno i magistrati negli uffici legislativi dei ministeri, poi le rifanno i magistrati quando le applicano e, se non soddisfatti, le rifanno ancora in Cassazione”. Non mancano i ricordi camerateschi del “sottofinale dei nostri congressi”, il sabato della fiesta di gala, i ‘fuochi d’artificio veri e ormonali’.
Quando Giuliano Ferrara lancia il “Siamo tutti puttane”, Spigarelli, insieme al suo braccio destro Vinicio Nardo, comunica ai membri di Giunta che dovranno partecipare tutti insieme a un programma tv travestiti da “puttane felliniane”, con tanto di calze a rete e minigonna, per affermare la sacra distinzione tra diritto e morale. E’ uno scherzo, ma alla fine anche i più riottosi cedono. Alla stampa, lettera S, che campa sull’“ansia dell’emergenza”, Spigarelli ricorda che chi sosta “all’abbeveratoio delle procure non è mai in una posa elegante”. Infine l’affermazione della propria alterità, financo antropologica: “Io il magistrato non l’avrei mai fatto: a me il Potere non piace”. L’avvocatura vuole incarnare l’Atlante randiano che affronta eroicamente lo stato e le sue storture. Senza potere? La parola alla difesa.
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