Il mondo perduto di Rep.
Il giornale che prima marciava come una falange macedone perde pezzi e compattezza. Colpa anche di Renzi. E soprattutto del Cav. che loro volevano morto e invece è risorto. La serata sul canapè del direttore Ezio Mauro, per il debutto dell’ex vice Giannini. E il Fondatore che va da Floris.
Bicchiere di barolo chinato stretto nella mano sinistra per darsi forza, telecomando nella destra per affrontare l’inevitabile che sarà, martedì sera Ezio Mauro ha avuto modo insieme di dolersi e di consolarsi. Comodamente sistemato nel canapè in stile Luigi XV del salotto di casa, cavouriana giacca da camera con nappe e comode pantofole Birkenstock, il direttore di Repubblica ha così intrapreso la serale transumanza: Rai3-La7-Rai3 (gianduiotto di consolazione: Giannini mette di mezzo il signor Pulitzer di cento anni prima)-La7-Rai3 (pausa caffè: c’erano certi alle prese con dei blocchi di marmo)-La7-Rai3-La7 (Ferro-China Bisleri di rinforzo, stavano facendo “tre domande al ministro Giannini”: ora, un Giannini passi, ma due Giannini in una sera son davvero troppi)-Rai3-La7 (parla un fruttarolo, telefonata a sora Concita: ma tu le camicie le fai con lo stira&ammira?)-Rai3-La7 (mezzanotte alle porte, cuneese al rum di consolazione)-Rai3-La7… Anima divisa in due, come la spalmabile crema bicolore delle Langhe, quella di Mauro: di qua il suo ex vice Massimo Giannini, “ballarollaro” a sorpresa al posto di Floris; di là Floris, ormai “ballarollaro” emerito, col Fondatore, Eugenio Scalfari – e quando c’è di mezzo un Fondatore di tanta autorevolezza e così vispo estro, uno inevitabilmente si sente sempre Numa Pompilio alle prese con Romolo. L’altra sera, in quel deambulare da canale a canale – quel pizzo sale e pepe non mi è nuovo / quella barba bianca mi è ben nota – Mauro ha compreso che l’epica della sacra cittadella di Largo Fochetti era giunta al culmine, lo studioso discente e l’illustrissimo docente messi a singolar tenzone, in televisiva lizza – e poco consolava sapere che pure la diretta concorrenza del nobile maniero di Via Solferino s’affrontava, col direttore De Bortoli su un fronte e l’ex direttore Mieli sull’altro, così che un soffio di Aznavour alitava nell’orecchio di Mauro, “ed io tra di voi, se non parlo mai / ho visto già tutto quanto…”.
Che poi, “visto già tutto quanto” per modo di dire, ché il martedì ormai sconfinava nel mercoledì, a momenti aprivano le edicole, e quelli niente, la palpebra calava ma né della Serracchiani né del dott. Passera ci si poteva privare. Si capisce che per Ezio Mauro – al quale l’Avvocato consigliò la media di un salotto annuo, e tale media mai ha superato, considerando bastevole il canapè di casa sua – è stato tormento d’animo e sfasamento di bioritmo che neanche con la melatonina si rimette in ordine il giorno appresso. Roba che la mattina dopo, durante la sempre fenomenale riunione video di redazione, c’era mestizia da mostra canina, intonso restava il vassoio dei croissant e sulla faccia del direttore spiccava l’assenza del labbro superiore – appena un taglio, tipo salvadanaio quasi serrato, più degnamente taglio artistico/sdegnoso/criptico alla Lucio Fontana. Pure la capigliatura fonata del caposervizio economico (’na cofana, avrebbe detto la signorina Carlo) pareva dare solidali segni di abbattimento. Parliamo d’altro – e infatti, sulla serata televisiva, concordemente, nemmeno una parola (in pubblico). Ma ciò che è andato in onda martedì sera, tutto quel “ciriciribì” da conduttore uno a conduttore due, come le volanti della Ps di Arbore di trent’anni fa, un fronteggiarsi di comici l’un contro l’altro, “il mio l’è co’ fiocchi e il tuo l’è co’ pidocchi”, un salutarsi e un riverirsi da diretta a diretta – tutto va a precipitare sulla scrivania direttoriale di Largo Fochetti. E’ il momento più inquieto, nel reame di Repubblica, del quasi ventennale regno di Mauro – quasi più saga dei Buddenbrook, ormai, coi vari protagonisti che intraprendono chi il matrimonio di convenienza, chi si butta in politica e chi sceglie di avviare la propria personale botteguccia, piuttosto che quella sorta di iniziale epopea dei Nibelunghi che fu, “son narrate cose stupende / di guerrieri famosi, imprese immense… / di lotte d’audaci guerrieri / di ciò udrete narrar meraviglie”, la gloria pubblicamente sdegnata e segretamente rivendicata del giornale-partito, squadrone con fogliazione che tremare il mondo fa. Grande ora il disordine sotto il cielo, là dove il ponentino s’insinua tra la Colombo e l’apposito slargo, fremono al vento i pini de Roma e freme pure e soprattutto Ezio Mauro. Molte cose sono avvenute, in questo e negli altri anni – ma in questo più di tutti – così che la sacra unzione, che una volta consacrava quasi “perinde ac cadaver” la fine del noviziato giornalistico per giungere al trionfo della piena assunzione contrattuale e di sangue, pare aver meno significanza, con rispetto massimo, del passaggio dalla moka alle cialde.
Ecco, prendiamo questo renziano 2014 – con quel che di berlusconiano, di intenti e modi, dietro si trascina, e il paradosso del sostegno al birbone democratico che reca con sé il contrappasso di odiosa contaminazione con l’ombra del “Mackie Messer” da Scalfari con largo anticipo individuato e ora celato sotto il giubbotto di Fonzie. Messo alla porta, rovesciato dal piedistallo (dieci domande dieci e manciata di bunga bunga e sigillarsi di bocca in bocca col liberatorio post-it), dalla finestra lesto risale, svelto s’insinua – e il topocida il direttore lesina?, sul ddt risparmia?, mentre le meglio firme se ne vanno ad apporre la stessa, a presidio della Costituzione, la mejor del mundo, sul barbarico Fatto, e Concita stira in sul calar del sole – nello specchio riflessa, insieme divinamente sommando Borges e Vaporella. Sul canapè Luigi XV al direttore post Fondatore, nelle pause pubblicitarie – meglio ancora: nell’appennicamento tra lo spento Benigni e quel Prodi dal disdicevole nodo col precario incravattarsi (ché cravatta, a modo annodata, il direttore porta sempre, ha spiegato: pure quando stava a Mosca, pure se andava in ufficio la domenica, pure se c’erano venti gradi sotto zero e “non avrei incontrato anima viva”, in giro solo lui e Giulietto Chiesa, che lo reputava “gramscianamente ineccepibile”, al più un sospetto di tigre siberiana) – il film di questi mesi deve essere passato sotto i suoi occhi, così che gli stessi al mattino stavano smorti, oltre che di poco solari visioni satolli. Non che poi sia andata male, quest’anno. Anzi, anzi. Renzi a parte, nel volger di pochi mesi, Mauro ha consegnato al Parlamento europeo Curzio (Malaparte? No, Maltese! Vabbè, pazienza. Maltese, dice? Corto? No, Curzio! E che cazz….!) e Barbara Spinelli, che a presidio del continente tutto a Strasburgo s’accampò, ognuno di acuto intelletto – così da intendersi, la gioiosa macchinetta da guerricciola della lista Tsipras, avendo ben sue due firme illustri su tre eletti, quasi bolide da scasamento di Repubblica. E adesso, con “Ballarò”, alla Rai cede (mica a prezzo di saldo, mica sconto d’invenduto, piuttosto preziosa radica di antica appassionata mobilia redazionale) pure il suo vice. Che da analista ebbe di Viale Mazzini visione di carrozzone, si è detto, e ora da conduttore mirabil creatura scopre, “grande patrimonio italiano”, quale Angelica che il mostro sta per divorare e lui sull’ippogrifo scaltro e impavido soccorre, mentre da Largo Fochetti dietro gli spediscono il temerario Leandro Palestini a chieder su pubblica piazza della pecunia, manco fosse Liana Milella con le sue impeccabili paginate “a domanda risponda!”, così a turbar animo e ardore di spirito del novello Conduttore. E allora, leva e metti, metti e leva, siamo a meno tre – chissà poi se mai così, adagiato sul canapè, Mauro pensò. E chissà se osservando Giannini in video – il sorriso tirato che a scatti mostrava i denti – la saggezza del paese l’avrà soccorso: “Quello trové Gesù Bambin ant l’òrt”. Chissà.
[**Video_box_2**]E’ dentro il (nuovo) gioco delle parti, il direttore di Repubblica. All’ombra del Berlusconi duplicato nel Renzi in fiore – il fumo di Satana che filtra là dove gli esorcismi finora compiuti parevano aver posto per sempre riparo, i trifidi che la civile società vogliono divorare, l’Ebola arcoriana. Si sta un po’ orbi dell’incoraggiamente visione di qualche passato decalogo col punto interrogativo (“ten questions to Mr. Berlusconi”, oh my God!), quando ci si faceva coraggio l’un con l’altro, e Mauro e Peppe D’Avanzo in coppia erano come i Beatles della C. Colombo, angolo Largo Fochetti, “nothing is gonna change my world”. Piccolo mondo antico che si sfrangia, animi che si turbano, ma lo stesso il direttore è antico comunista (si direbbe così, nel disordine linguistico del ventennio vissuto da fulgido Continuatore dopo il sacrale Fondatore) con saggio pelo politico sullo stomaco – come lo fu da abile cronista della Gazzetta che lesto le altrui lentezze precedeva, e lo fu da osservato speciale da parte di quelle carogne di brigatisti, e pure gorbacioviano riformista nel gelo della steppa, e adesso e prima virale antiberlusconiano nella glaciazione della democrazia italiana. E dicendo comunista chiaramente lo si loda, di togliattiano taglio lo si intuisce – così la svolta da scuola salernitana a Largo Fochetti l’orizzonte allarga e scompiglio suscita. Nessun esercito di Franceschiello, si capisce (poi, figurarsi, alla guida uno più pratico, casomai, di cavalleria sabauda), ma neppure più macedone falange che nulla scalfiva – ma che il suo stesso essere imbattibile e insuperabile mutava sempre più in pietrosa sostanza, come l’esercito immenso di terracotta dell’imperiale Qin: imponente e impotente (così, a guardia del morto, e di cose morte, stava). Il corso delle cose muta ciò che sembrava definito per sempre – l’eternità e un giorno, per dirla cinematograficamente corretto. Come immenso iceberg, Repubblica ha cominciato a muoversi – o altrimenti, ancora peggio, ha preferito restare immobile, dicono certi, mentre il meglio del meglio delle sue firme, dai Rodotà (già tà-tà) ai Zagrebelsky (e par giusto ieri, che con Gustavo s’andava, come altri in barca con Lapo, a discettar di democrazia, e insieme a comporre ammirevole manufatto letterario sulla dibattuta quaestio) fino al fenomenale Cordero o Barbara vado-o-non-vado, verso la sponda sabbiosa del Fatto attirati: chi intervistato, chi a far scritto d’autore, chi a firmare appelli (ecco, a Largo Fochetti si latita da ultimo nella raccolta di firme, che poi è la firma, si sa, panza e sostanza della difesa democratica, e perciò a me la Bic!, a me il lapis! – vuoi per i Pm di Palermo, vuoi per la Costituzione più bella, vuoi sempre e per sempre versus il Noto Lestofante), chi persino a farsi strapazzare dal raccoglitore-principe Travaglio come nel caso di Zagrebelsky (“Perché non l’ha firmato?”. “Un po’ perché mi ha stancato l’accusa di firmaiolo…”), transumanza, forse esistenziale prima che giornalistica, detto con renziana espressione, di gufi e professoroni – “parleranno tutti quanti / dotti medici e sapienti” (E. Bennato).
Lassù, dalla sommità di Largo Fochetti – “per l’altro mare aperto”, direbbe il Fondatore – fosse pure bagnarola di capienza bastevole solo per papera e due paperotti, il Continuatore cuneese, einaudiano con tessera in bianco del partito d’Azione, lascia un po’ vibrare la cartacea creatura. Del resto, già prima che Renzi (hai voluto il Papa Straniero? “Dovrà essere un leader che non risponda ad apparati e cursus honorum tradizionali. Che esprima una discontinuità, che offra una speranza di cambiamento e di vittoria”? Ah, sì? Eccolo. Adesso pedala!) barbaricamente si accampasse dove traccheggiavano le anime da ogni peccato monde di M. Monti e Letta Jr., con liuti e cimbali e viole d’arco berlusconiani d’accompagno, ferocissimo scontro, proprio da mostro e ippogrifo nella meglio epica, intorno a Napolitano (causa trattativa Stato-mafia: altra epica mica da ridere), tra Scalfari e il sempre tormentato, or da uno or dall’altro, professor Zagrebelsky, e fu costretto il Mauro a farsi concavo e convesso, Langhe e Monferrato insieme, “l’indagine è meritoria, come dicevo due mesi fa. Ma oggi – aggiungo – chi la ostacola?”, un po’ al Fond. e un po’ al Prof., sì, tu hai ragione, e sì, quello non ha torto: pareva il Cav. nei momenti di calma, con Fitto e Verdini accampati sul pianerottolo. Su una faglia (politica) ora pare poggiare la solidissima Civitate Dei di Repubblica. Chissà chi ricorda che a presidente della Rai – di garanzia, va da sé – fu chiamato un illustrissimo del luminoso borgo, Paolo Garimberti, che nell’estate del 2009 sotto i colpi di maglio del suo ex giornale a sorpresa finì: un dì per la penna del compianto D’Avanzo, “sappiamo che Paolo Garimberti è in viale Mazzini come ‘presidente di garanzia’, meno si comprende che cosa e chi stia garantendo”, il dì appresso per quella di Giovanni Valentini: “Con buona pace del presidente Garimberti e dei consiglieri di minoranza, siamo dunque alla definitiva subordinazione della Rai agli interessi e alle convenienze di Mediaset” – che allora, lì a Repubblica, col Cav. in gloria e Maltese in trono, l’Ufficio Quadri piantonava e vigilava.
Ma è stato Renzi lo Screanzato a scuotere con più forza il presidio di Mauro. Lo evocò – il Papa Straniero era solo rumoroso mediceo e parecchio sfarfalleggiante, come altri del passato di simil casta – e se lo ritrovò. Se lo ritrovò e lo lodò l’editore, Carlo De Benedetti (che pure, la volta prima, per Bersani aveva votato), e idea cambiò, “non è furbo, ma intelligente, ho scoperto che è una spugna, ha una quantità di energia mai vista” – praticamente, come l’Arno in piena. E fin qui, pace. Magari poteva dolersi il prof. Asor Rosa, che giustamente ha saggia diffidenza verso la sinistra d’oggidì e completa concordanza letteraria e di vita con certi felini di casa. E’ sceso a patti, Mauro (ché pure lui aveva votato Bersani) – patti intelligenti di posizionamento giornalistico: a non farsi pietra, a non passar la giornata a preparare modulistica per firmaioli incontinenti. Ma dietro l’energetico premier, sorta di fresco barattoletto da frigo bar, ecco s’appalesa il mai domo spirito del Cav. Nazareno, vil patto dannato. Costituzione, più bella che pria. Magistrati, non addolorate la Milella. Occhio, malocchio, prezzemolo e finocchio. Giustizialisti q. b. – che poi, q. b. al lettore medio riflessivo di Repubblica è dose, è risaputo, abbondante: da cavallo di procura. Si è appena un po’ assestata, Repubblica, ma le fitte son state dolorose. Pure il Fondatore – che dal vice ex non è andato, alla rete concorrente si è concesso – pensa che prima o poi quella bestiaccia brutta di “Mackie Messer” col coltellaccio bisognerà ritirare fuori. E intanto, domenica – fosse quaresima, fosse resurrezione – ammonisce che all’erta si sta, cedere mai, attenzione massima, “esiste l’ipotesi che l’eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent’anni di berlusconismo vent’anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo…”. Ferro-China Bisleri doppia per Mauro, quelli del Fatto che si leccano i baffi e il dirimpettaio Padellaro si fa solidale e comprensivo – “la solitudine di Eugenio S.” (ma attenti al Fatto quando mettono solo le iniziali: sia di monito B.), pure se “dall’alto della sua barba bianca” (dall’alto della barba bianca?).
Uno e trino, il direttore Mauro E. (così, per gusto). Rieccoci alla sera sul canapè, martedì sera. Di là Scalfari – verso il quale non può tacere certo sentimenti similari a quelli di Peppiniello di “Miseria e nobiltà”: “Vincenzo m’è padre a me...”. Di là Giannini (quello coi pantaloni e cravatta regimental; quella con la gonna stava di qua) – che figlio non può dirsi, piezz’e core figurarsi, ma sempre qualcuno che a Largo Fochetti c’era e adesso non c’è più. Come Barbara S. Come Curzio (non Malaparte) Maltese (non Corto). C’est la vie! C’est la Repubblicà! Ma che ora è? Mezzanotte passata… Bòja fàuss, ma volete andare a letto? A quest’ora, a Dronero dorme pure il Santo Vescovo, e Passera ancora qui che fa l’aquila notturna? Poi, se non si arriva presto alla riunione, si sa come va: il solito Carmelo Lopapa si pappa tutti i cornetti con la marmellata di albicocca. Il direttore si tira su dal canapè. Ha visto abbastanza. Schiaccia il tasto rosso nel momento esatto in cui appare la faccia di Massimo Giannini. Clic. Adios. Alè. Gli torna in mente la Caterina Caselli, quella volta che il Cantagiro passò per Cuneo, e lui, scavezzacollo come pargolo renziano sfuggito al controllo degli scout, calò da Dronero con la Millecento per sentirla: “La tua voce già vola nel vento / non è che un ricordo e non tornerà / maiiiiiii piùùùùù da meeeeeee!”. Almeno gli pare. Sul post-it rimasto inutilizzato prende nota per il responsabile dell’inserto domenicale (culturale, si capisce). “Sentire Caselli”. Va verso il letto, torna indietro.
“Caterina”, precisa. Va. Ritorna: “Caselli, non Guzzanti”, precisa meglio. Sospiro stanco. “Apres a la neuit a-i ven ’l dì”. Getta nel cestino il post-it. Spegne la luce.
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